La moda che balla.

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Bello.

Molti oggi non conoscono il nome di Stephen Burrows, eppure nel 1973 era lo stilista sulla bocca di tutti e i suoi abiti erano sui corpi delle it-girls del momento, e non solo perché era il primo stilista di colore ad aggiudicarsi un Coty award.

Finalmente la città di New York, palcoscenico preferito del suo stile, gli rende omaggio con la mostra When fashion danced. 

Il titolo della mostra spiega molto sull’attitude di questo stilista, ma anche sugli ambienti che amava frequentare.  I suoi abiti erano colorati, in perenne movimento, anysex -come lui li definiva-, comodi, luminosi e innovativi.
Ma non è il caso di usare il passato, perché Burrows è, nonostante un certo oblio, ancora vivo e vegeto e lo è anche la sua moda, come dimostrano le ultime collezioni.
Per fortuna che qualcuno se n’è accorto!

 

Chanel N°5: la storia, le storie.

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Bello.

Ho letto qualche recensione sulla mostra che il Palais de Tokyo a Parigi dedica all’ormai mitico Chanel N°5 e mi sono saltate all’occhio alcune incongruenze.

Diciamo subito che la storia di Chanel si presterebbe a infinite interpretazioni, però alcune date e relativi avvenimenti sono inconfutabili. Laddove si racconta che Gabrielle avrebbe dedicato il suo N°5 a Boy Chapel, bisogna pur dire che nel 1921, anno in cui fu inventato il profumo, Boy era già morto da tre anni e Chanel aveva un nuovo amante, il granduca Dimitri, discendente dei Romanoff. E’ proprio a lui che la couturier deve in realtà l’ingresso nel mondo della profumeria, lei che tollerava come unico odore personale quello del sapone di Marsiglia e che disdegnava i profumi in quanto affari da cocottes..

Il Granduca invece di profumi doveva intendersene eccome, discendendo da una stirpe, quella degli zar, che di essenze faceva buon uso e da lungo tempo.

Per quanto riguarda la scelta del nome e del packaging la stessa Chanel raccontava che la casualità ci aveva messo lo zampino, e io direi anche una buona dose di fortuna o meglio fortunato intuito, visto il risultato. Che poi il tutto fosse stato influenzato da correnti cubiste, dadaiste o surrealiste (di cui Chanel sapeva ben poco..), ho molti dubbi, ma questo è solo il mio parere.

Credo che Chanel possedesse quell’innato intuito affaristico che le faceva fare istintivamente le scelte azzeccate e credo anche che ne fosse ben cosciente, dato il suo carattere votato alla concretezza.  In effetti quello che stride spesso nei racconti che la riguardano, è questa tendenza a volgere tutto in smielature e retorica, come se altrimenti il mito ne avesse a soffrire.

Penso che la vera grandezza di questa storia stia proprio nelle pieghe dell’imperfezione, negli errori o piuttosto nelle innegabili debolezze. Ci si aspetterebbe che da cose simili non possa nascere un’icona di stile, e invece..

Giorgio Armani: il re nudo.

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Brutto.

Leggo nella pagina economica del Corriere della Sera l’intervista a Giorgio Armani e ci sono alcuni punti che non mi sono ben chiari.

L’articolo parte dalla constatazione di un traguardo economico di tutto riguardo: fatturato sopra i due miliardi, e questo rende evidentemente la voce dello stilista/imprenditore ben più autorevole..  Però questo campione del Made in Italy non fa parte del gruppo dirigente della Camera della Moda, il motivo? Lui chiede che tutti i marchi italiani tornino a sfilare a Milano.

Quando l’intervistatore gli fa notare che però la sua alta moda sfila a Parigi, ecco che la risposta è bella che pronta: mi dispiace tanto signori, ma per quanto AltaRoma si sforzi, Parigi è sempre Parigi e per l’haute couture non c’è storia..

Poi però rilancia: -Il sistema Italia deve liberarsi di particolarismi ed esterofilie..-.

Mettiamoci d’accordo Re Giorgio, è vero che un re ha sempre l’ultima parola e la sua logica è spesso indecifrabile per noi mortali, ma nelle sue parole io vedo qualche accenno di incoerenza,

AGL: come ti faccio le scarpe..

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Bello.

Questa è la storia di un’azienda italiana che in Italia è però sconosciuta. E’ anche la storia di tre sorelle che hanno ereditato dal padre, Attilio Giusti Leombruni, il pallino per le scarpe e lo hanno traghettato nella modernità. Senza colpi di testa, ma con i piedi ben saldi per terra (è proprio il caso di dirlo..). Fanno soprattutto scarpe senza tacco, perchè le tre ragazze sanno bene cosa vuol dire lavorare fuori e dentro casa e poi magari anche correre appresso ai figli.
All’estero vendono alla grande, tanto da poter dare lavoro -in Italia- a 110 dipendenti.

Infine questa è la storia di un’azienda sana e concreta: qualità, creatività, lungimiranza e tradizione. Un ottimo cocktail.

I vestiti erranti di Roberto Capucci.

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Brutto.

Questo è un abito di Roberto Capucci dell’89 intitolato (guarda un pò!) Primavera.
Comincerò col dire che per Capucci nutro un certo affetto, mi è capitato di partecipare ad una mostra con lui nel 2002 e di incontrarlo qualche volta. E’ un uomo gentile ed elegante ed il suo apporto alla costruzione della storia della moda italiana è stato sicuramente importante.

Una delle classi in cui insegno mi ha chiesto di visitare la mostra con i suoi abiti alla Reggia di Venaria e volentieri li ho accompagnati, altrimenti credo che me la sarei evitata (ho visto quegli abiti già in più occasioni).  La cosa che ho subito notato è l’allestimento che appare evidentemente votato al risparmio e ad una certa approssimazione: alcuni abiti sono decisamente sistemati male, i bouquet (di plastica!) delle spose sembrano appena usciti da qualche negozietto cinese, le luci non sono adatte a valorizzare, ma piuttosto sembrano appiattire. In più molti abiti avrebbero bisogno di un urgente restauro: cuciture aperte, angoli smangiucchiati  -non stiamo parlando di abiti dell’800..-.

In sostanza la sensazione che ho avuto è quella di un’esposizione fatta più per far cassa che per vero desiderio di divulgazione o documentazione. E a questo punto mi chiedo perchè un couturier come Capucci si presti a questo genere di operazioni. Mi chiedo anche che senso abbia per lui, ormai, continuare ad esporre sempre gli stessi abiti, dimostrando in questo modo di non aver più molto da aggiungere ad una storia che sembra essere rimasta ferma nel tempo.

Ho immaginato questi abiti, eternamente in viaggio, da una mostra all’altra, ormai esausti, privati persino della loro funzione primaria: nessuno che li indossi o che li abbia mai indossati. Non più Moda, ma nemmeno abbastanza per essere Arte.

Forse Arte Applicata? Chissà..

Le parole per dirlo – II

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Bello.

E’ morto Ottavio Missoni, lo so ne hanno già parlato in molti e io non aggiungerò granchè al ricordo di quest’uomo notevole da più punti di vista. L’ho incontrato una sola volta e il suo sorriso aperto mi ha subito comunicato qualcosa di buono, genuino. La stessa impressione che ho avuto incontrando sua moglie, una donna cordiale, direi amorevole.

Quello che mi spinge a prendere spunto da questo evento è una sensazione che vivo in questo periodo, in cui mi capita ogni giorno di trascorrere alcune ore in ospedali.  Nel mondo della moda la parola dolore è probabilmente tra le meno trattate; tutto ciò che esula da un senso di perfezione apparente è poco trattato: morte, deterioramento, malattia, vecchiaia..

Eppure la moda, come fenomeno di costume rientra appieno nella realtà quotidiana e non è certo immune da qualsiasi manifestazione che la vita da di sè.  Gli stilisti si ammalano, muoiono, le modelle soffrono di disturbi alimentari, invecchiano. Tutto procede come nell’ordine naturale delle cose, solo che raramente se ne parla.  Qualche stilista ogni tanto tenta di portare in passerella qualche modella agèe, ma la cosa risulta (di solito) essere più una trovata pubblicitaria che una vera presa di coscienza della realtà.  La malattia e la vecchiaia sono tra i grandi tabù della moda e forse non solo della moda.  Il dolore rimane così emarginato nel limbo del ‘non si può dire’: l’ospite sgradito di cui non è piacevole sentir parlare.

Personalmente il dolore mi ha insegnato più di qualsiasi altra esperienza. Non lo ringrazio certo, perchè è stato un maestro crudele, eppure incredibilmente efficace.  Rispetto alla felicità dura tanto di più, per questo i suoi insegnamenti sono così convincenti.

Credo che si possa cogliere l’occasione in questa, come in altre occasioni, per ripensare al senso di tutto ciò che facciamo in relazione al senso profondo dell’esistenza con la sua fragilità e con tutti i suoi difetti, morte compresa.

Gli abiti autonomi di Ying Gao.

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Bello.

Ying Gao non può essere definita semplicemente una designer o ancor meno una stilista. Qualcuno la definisce un’artista, io preferisco sperimentatrice, che non è affatto da meno, al contrario, assume in sè una delle caratteristiche dell’arte, ma a volte riesce ad andare addirittura oltre. Ying lavora con elementi artificiali: sensori, led e altri strumenti tecnologici sofisticatissimi ed elementi naturali: luce, aria, suono. Questo, ai miei occhi, fa di lei una sorta di alchimista visionaria e allo stesso tempo concreta.  Una di quelle cose da perderci la testa.

I suoi abiti si trasformano, si muovono.  Respirano.  E non è un modo di dire: sono abiti che reagiscono all’aria e alla luce come strani fiori di altri mondi, che sembrano avere una vita propria, con all’interno un cuore pulsante di luce.

La cosa incredibile è che questi abiti siano anche così belli e portabili (se non fosse per tutto quello che combinano addosso a chi li porta..).  Abiti che si trasformano influenzati dalle condizioni atmosferiche, dall’umore di chi li indossa e chissà da cos’altro..

Io credo che Ying si diverta anche moltissimo con queste sue creazioni. Ciò non toglie che guardandole si abbia la sensazione che il futuro sia davvero a portata di mano.

Quando retrò vuol dire tornare indietro..

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Brutto.

Lo so, mi tirerò dietro gli anatemi dei tanti (troppi) estimatori di Christian Dior = Dieu+Or.   Ma non posso trattenermi, l’ho già scritto altrove che ritengo questo couturier sopravvalutato, come lo sono molte altre autorevoli figure (Picasso, per esempio -altro anatema!).

La mostra al Museo di Granville Impressions Dior mi dà una ulteriore conferma di quelle che sono le mie “impressioni”.

Impressionismo e Dior, originale trovata, non c’è che dire.. I fiori e gli abiti corolla, altra novità.  Insomma, io credo che se davvero questo couturier ispira accostamenti talmente scontati, allora forse non c’è molto altro da dire.
Peccato che a dirlo sono già in troppi da oltre cinquant’anni.

Insomma cos’è il design? Pura estetica? Tutto qui?
E cos’è un abito? Un oggetto solo da guardare? Forse per un uomo può essere, lui non deve indossarlo dopotutto.
Ma possiamo ormai archiviare le questioni di estetica pura, già ampiamente dibattute, possiamo considerare la moda, e quindi gli abiti, da punti di vista innumerevoli e decisamente più interessanti -io credo di si-.
Possiamo, in definitiva, smettere di stupirci e restare ammaliati davanti a un vitino di vespa e una gonna gonfia come quelle delle principesse nelle favole.

Sono convinta che in quelle favole le principesse non devono fare poi una gran bella vita con quegli abiti addosso.

La trappola del giovane stilista rampante.

Edna-Mode
Brutto.

Rifletto oggi sulla misura e la qualità dell’ego degli stilisti contemporanei. Mi è capitato di esprimere un’opinione negativa su uno di loro (in uno spazio pubblico, Facebook per intenderci) e di sentirmi rispondere più o meno così: -Anche il tuo lavoro non è un granchè-.
Ci sono rimasta male? No.
Mi ha fatto sorridere? Si.
Un pò come con i bambini, che se non li accontenti allora non ti vogliono più bene.

Che senso ha un ego che non prevede il confronto e quindi anche le critiche?
Davvero ci sono stilisti convinti di dover piacere a tutti?
E poi, ancora, poichè su Facebook esiste come unica opzione il -mi piace- questo significa che il -non mi piace- non è contemplato?
Nel tempo, riguardo al mio lavoro di SS (sarta/stilista) mi sono sentita dire molte cose, qualcuno mi ha anche definita un bricoleur. Ho incassato e cercato di riflettere.
Le critiche non piacciono, ma di solito fanno bene.

Credo che da molto tempo il mondo della moda abbia smesso di esercitare autocritica e questo non è un buon segno, semmai un campanello d’allarme. Il sintomo di un autoreferenzialismo tronfio. Il sintomo anche di chiusura.

Ma nel chiuso le idee non hanno aria per respirare e può succedere che muoiano soffocate.

Gioielli per pensare: Eina Ahluwalia.

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Bello.

Eina Ahluwalia è una jewellery designer indiana che disegna gioielli che sono intenti: preziosi distillati di filosofia personale.  Uno dei suoi sogni è quello di ricoprire d’oro il corpo delle donne, e quando parla di oro credo che non intenda solo il metallo.

Per i suoi gioielli usa parole importanti, usa il muscolo del cuore e poi spalanca porte, proprio lì, sul cuore.  Love, respect, protect.  Come un mantra buono, che vale la pena ripetersi..

Del suo lavoro dice:  il processo creativo comincia con tanto caffè e tanta angoscia. Devo raggiungere dentro di me e poi vagliare innumerevoli pensieri e idee prima di trovare quella storia giusta, che ha bisogno di essere condivisa.