Quelli che se la cantano e se la suonano..

quelli che se la cantano e se la suonano

Brutto.

Nei periodi di eventi canonici (sfilate, biennali, ecc.) si assiste alla migrazione in massa di quelli che io chiamo i martiri dell’immagine.  Coloro che per professione o pseudo-tale si occupano di moda e dintorni.  Quelli che, per intenderci, quando gli chiedi -cosa fai nella vita- ti rispondono immancabilmente:  -mi occupo di stile-.

Che siano giornalisti, aspiranti designers, rappresentanti di abbigliamento, blogger, negozianti, parrucchieri o millantatori poco importa, loro fanno moda.  Loro sono “costretti” a sorbirsi i saloni sotto la canicola di Giugno o correre da una sfilata all’altra (posto standing di solito, ma questo non lo dicono) con l’immancabile tacco 15 + plateau e contro-plateau o comunque una bardatura di tutto rispetto. Vuoi mica che Schuman si perda l’ultima mise!  Essere immortalati dai blogger di tendenza o nei siti dei meglio vestiti è in effetti a queste latitudini il premio più ambito. E poi diciamocelo, a questi eventi ormai si va più per farsi guardare che per guardare.

Ma c’è un altro sollazzo, ben più subdolo, che attira questo nutrito gruppo: la finto-lamentela sui social network.  Non perdono occasione per raccontarvi quanto sia stato stancante l’ultimo vernissage da Armani o la scapicollata in taxi per non perdersi neanche un minuto della sfilata dello stilista di grido. Per non parlare delle code in aeroporto per andare a guardare la settimana della moda di Dubai..  Ci godono un sacco a farsi belli e si vede da lontano, ma loro imperterriti fanno finta di essere tanto stressati e di non poterne davvero più…

Questo post è per voi, martiri con la coda di paglia, per dirvi che fate ridere.

Un sarto di nome Cristobal.

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Bello.

Cristobal Balenciaga è uno dei grandi padri della couture,  -il maestro di tutti noi-, come diceva avvedutamente Dior.   Era un innovatore, a suo modo anche rivoluzionario, era un purista assoluto, nei fatti così come nel pensiero, ed era un sarto, uno dei più grandi che siano mai esistiti.

Aveva l’abitudine, per non perdere il contatto con questa sua eccelsa qualità, di confezionare personalmente, e a mano, per ogni sua collezione un tubino nero. Non di un nero qualsiasi, ma del nero più nero che esista: il Spanish Galia.  In questo modo dava prova, prima di tutto a se stesso, di quanto lui fosse padrone di quell’arte raffinatissima e volubile. In quel nero assoluto non erano permessi errori  né distrazioni, perché l’unico obiettivo era la perfezione e null’altro.

La grammatica della perfezione per Balenciaga era la sintesi, troppo spesso confusa per semplicità. Obiettivo irraggiungibile per molti. Non per lui, che fu l’esempio , nel lavoro come nella vita, di quel gesto che comprendeva tutto. Frutto di un lavoro incessante e maniacale, ma che, come per magia, sembrava sempre scaturire dal nulla.

Fatto per i piedi, ma non con i piedi.

scarpa 1920-28 by Hellstern & Sons

Bello.

French shoes, 1920-28 by Hellstern & Sons.  Proporzioni perfette, dettagli raffinatissimi, grande lavorazione. Insomma una scarpa che è un piccolo monumento al buon gusto e alla qualità. Bellissimo anche il colore che è un neutro adatto a qualsiasi accostamento, senza essere scontato come tutti gli altri neutri. Insomma: chapeau!

Fortuny e l’abito perfetto.

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Bello.

Mariano Fortuny y Madrazo era molte cose tutte insieme: architetto, scenografo, regista, inventore, fotografo, scultore, incisore, alchimista..  Fra le tante cose era anche un couturier, anche se lui si considerò sempre, soltanto un pittore.

In veste di couturier nel 1907 inventò un capolavoro praticamente senza tempo: il Delphos.  La tecnica di tintura e plissettatura manuale su seta è rimasta un segreto dell’autore, ma non è solo a questo che si deve l’eccezionalità di questo abito. Un abito menzionato persino nella Recherche di Proust.

Per il Delphos, Fortuny usava solo finissima seta giapponese, ogni capo era unico, perchè interamente fatto a mano sotto la sua attenta supervisione. Sulle cuciture dei fianchi e sull’orlo erano applicate piccole perle di vetro di Murano che regalavano alla seta una caduta perfetta.

Il Delphos fu indossato dalle donne più visionarie del tempo, bisognava esserlo per proiettarsi così avanti nel futuro in un’epoca  che prevedeva ancora corsetto e ingombrante biancheria intima. Isadora Duncan, Dolores del Rio, Eleonora Duse, la marchesa Luisa Casati e poi Peggy Guggenheim e Martha Graham..

E’ un abito che si adatta a tutte le taglie, splendido nella sua semplicità.  E’ la sintesi perfetta di vestibilità, eleganza e funzionalità: in definitiva un grande esempio di ottimo design.

Mariano Fortuny visse e lavorò per buona parte della sua vita a Palazzo Orfei, Venezia, quello che oggi è la sede del Museo Fortuny.  Ho avuto la fortuna di visitare il museo molti anni fa, prima del restauro e da allora la mia ammirazione per il suo lavoro non ha fatto altro che aumentare. Ricordo le grandi sale impolverate e ferme nel tempo, i velluti saturi di colore e la sensazione di respirare insieme agli odori anche una grande energia.  Doveva averne da vendere per fare tutte quelle cose contemporaneamente e farle anche in modo così compiuto.  Ma in fondo tutto si spiega se si pensa che Fortuny era sostanzialmente una unica grande cosa: un artista.

The Highlanders.

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Brutto?

Coco Chanel con il suo immancabile caschetto nero, che somigliava ormai più a una parrucca -e forse lo era davvero- che a una chioma naturale. Vestita da eterna ragazzina, con la paglietta, il tailleur smilzo e le labbra imbellettate.  Immutabile e definitiva.

Diane Pernet con il suo total black, l’altissima cofana, occhiali a farfalla, labbra rosse e pelle diafana.

Anna Wintour, Franca Sozzani, Karl Lagherfeld..  Tutti riconoscibili alla prima occhiata, tutti come fermi nel tempo. Apparentemente.  A volte mi torna in mente il personaggio principale di morte a Venezia.

Sembra paradossale se si pensa che sono tutte persone che si occupano di uno dei fenomeni più mutevoli che esistano,  ma forse è proprio in contrapposizione a questo velocissimo e straniante cambiamento che si pongono con la loro fissità: tutto cambia, ma io resto.

Immagino che ci siano, come sempre, più punti di vista e penso ad Anna Piaggi, che riusciva ad essere al contempo sempre diversa e sempre uguale a se stessa.  Iconica nel vero senso del termine al punto da impregnare di sè ogni pezzo che indossava.

A volte in questo esercizio si avverte una rinfrancante autoironia, altre volte, piuttosto, un fastidioso autoreferenzialismo.  Mi sembra di scorgere il tentativo di andare al di là della moda -o al di sopra?-.

Ma forse potrebbe trattarsi di una semplice scelta di marketing: perchè cambiare un prodotto che funziona?

Icone italiane in America (sottotitolo: l’ultimo dandy..).

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Brutto.

Ho sempre pensato che parlar male dello stile di Lapo Elkann fosse un pò come sparare sulla Croce Rossa. Ma mi sbagliavo.

Scopro che Anna Wintour in un servizio su Vogue America lo definisce l’uomo più elegante del mondo.

Ora capite perchè affermo che del giudizio di certo giornalismo di moda non ci si può fidare.

Quelle gabbie per le donne.

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Brutto?

Guardando le ultime collezioni e osservando le forme degli abiti che propongono, mi è saltata all’occhio una inquietante presenza, che periodicamente si riaffaccia sul corpo delle donne: il corsetto.

Non sono bastati gli avanguardistici anni ’20 e nemmeno i rivoluzionari ’60 e ’70 o il minimalismo dei ’90; niente da fare, con i vitini di vespa dobbiamo avere ancora a che fare..  Ce lo dice chiaramente il ritorno in auge del New Look e poi la corsetteria di La Perla affidata a Gaultier, che non lesina certo con ganci e laccetti.   E’ evidente nei virtuosismi di McQueen e nei ritorni di fiamma per Montana e Mugler.  Per non parlare della Maison Worth che, come il suo fondatore, fa del corsetto il suo cavallo di battaglia.

C’è voglia di stecche e aggeggi contenitivi. Ma per contenere cosa?  Lo sappiamo bene che controllare il corpo e i suoi movimenti naturali significa mettere un freno alle libertà personali: l’invalidamento sociale parte proprio da quello fisico.

La rigidità e l’eleganza formale -quasi ingessata- di certi abiti, fanno pensare a donne abituate a muoversi con compostezza (per non parlare di certi tacchi vertiginosi).  Donne disposte a sopportare la scomodità in nome di una femminilità suprema.   Così rassicurante (ma per chi?) con quel retrogusto di altri tempi..  E immediatamente mi vengono in mente le perfette casalinghe degli anni ’50, intente a reclamizzare l’ultimo elettrodomestico.

Sarà un caso che tutti i nomi che ho citato all’inizio di questo post siano di genere maschile?

Resto comunque fiduciosa che la storia non si possa fermare e nemmeno rallentare, e che le donne alla fine scelgano perlopiù abiti che soddisfino i loro reali bisogni.  Tutto il resto assomiglia a fumo negli occhi e il fumo dopo un pò svanisce.

Le parole e i tabù.

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Brutto, bello?

Qualche mia esternazione riguardo al giornalismo di moda deve aver toccato piccoli nervi scoperti e la cosa -lo confesso- non mi dispiace.  Non amo le polemiche, ma il confronto rispettoso mi stuzzica abbastanza.

Il tema è la presenza nel mio spazio dei termini brutto, bello.  Sembra sia diventato talmente inusuale definire brutta una cosa o una situazione, da dover ogni volta spiegare e contestualizzare l’evento.  Temo che ci siano persone che preferirebbero qualsiasi insulto piuttosto che sentirsi definire brutte, -non dimentichiamoci che ci muoviamo in un girone, quello della moda, che dall’estetica non può prescindere-.

Sarà che sono abituata a frequentare spesso bambini, sarà che occupo molto del mio tempo in azioni pratiche (tagliare, cucire..), sarà che l’esperienza è la fonte primaria dei miei umili insegnamenti (e ho la sensazione che tutto questo suoni un pò troppo normale, per risultare interessante), alla fine se devo scegliere, scelgo la semplificazione, o piuttosto la sintesi.  In questo senso brutto e bello mi sembrano proprio perfetti.

Qualcuno ritiene che brutto/bello siano termini inefficaci poichè altamente soggettivi, io rivendico invece proprio la loro efficacia in quanto espressione della più importante scala di valori, quella personale.  D’altra parte non esiste esternazione del pensiero umano che non sia soggettiva. Quindi di cosa parliamo?

Può darsi che siano ritenuti scomodi perchè troppo diretti e inconfutabili -proprio perchè soggettivi-?   Definire brutto o bello qualcosa significa anche assumersi la responsabilità di un parere chiaro e non contrattabile, cosa che non mi pare di leggere  di frequente nelle riviste di moda.

Non è un caso che li abbia scelti -se qualcuno avesse ancora dei dubbi- e sapevo pure che avrebbero infastidito qualcuno, ma in fondo è come buttare sassi in una pozza di acqua stagnante.  Ogni minimo movimento è benvenuto.  Almeno così la penso io.