L’alchimista.

alchimista

Bello?

Una delle interviste più improbabili che ho letto negli ultimi tempi arriva dalle pagine di Vogue Unique. Si tratta di Christian Astuguevieille direttore creativo di Comme des Garçons Parfums, per il lancio del nuovo trittico di profumi che spaziano sul tema del colore blu.

Astuguevieille ad un certo punto ammette di ignorare l’identità di Michael Stipe dei R.E.M., il che non è un peccato mortale, anche se un po’ suona insolito. Poi però spiega che lui ascolta solo Bach e Beethoven, non guarda la televisione e che è fuori dal contemporaneo. L’affermazione mi lascia perplessa. Cosa significa? Che vive in metropoli come Parigi e Berlino, a contatto con realtà mutevoli e protese verso il nuovo come la moda e il design, e ciononostante immagina di vivere fuori dalla realtà?

Mi sembra di scorgere nelle sue parole quel tanto di atteggiamento snobistico che offusca un bel po gli innegabili meriti professionali.  Più avanti, nell’intervista, racconta il suo approccio con i collaboratori: “Magari dico soltanto -Blu:basta che sia diverso e nuovo. Tornerò tra una settimana, voi procedete, ma siate folli-  Perfetta fusione tra un Frederick Worth (metà ‘800) e uno Steve Jobs..

Ancora con questo cliché genio&follia, ancora con il mito del profumo che nasce da una semplice intuizione, anziché dal lavoro di ricerca e marketing..

E ancora con l’utilizzo di questa parola -Arte- come se fosse un ingrediente.

Il cambiamento visto da Rei.

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Bello?

Comme des Garçons SS2014.  Sogno o son desta? Non sembra anche a voi che questa sia una neanche molto velata allusione a Chanel?

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A questo punto mi viene il dubbio che anche questo possa essere un richiamo alle gabbie del New Look..  Non sarà che Rei Kawakubo con questa collezione apparentemente immettibile, ci voglia raccontare che è ora di smetterla con i vecchi cliché?

Rick Owens: non è roba da principesse.

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Bello.

Rick Owens SS2014.  Se qualcuno avesse ancora voglia di parlare di piccola sommossa (non rivoluzione, dai..), eccone un esempio finalmente calzante.

Le donne della sua collezione invernale erano amazzoni con aria belligerante, ma pur sempre eteree. Qualcuno deve averle fatte incazzare di brutto, oppure si tratta delle sorelle brutte, sporche e cattive, ma tanto tanto donne vere -e non vere donne, che non è la stessa cosa-. E soprattutto in carne e ossa.

Io non sono una dall’incanto facile; insomma lo spettacolo non mi basta, anzi a dirla tutto qualche volta mi puzza pure di specchietto per le allodole.. E ammetto che in un primo momento ho temuto il peggio.

Ma no, non è questo il caso.  Qui si dimostra che i vestiti si possono, si devono fare per tutte.

La sostanza, al di là dei proclami e dello spettacolo, dice che quelli sono abiti che chiunque può indossare. Che sono abiti che vivono insieme al corpo: ti ci puoi arrabbiare o impazzire di gioia, o annoiarti a morte.  Loro ti seguono e sono sempre dalla tua parte, e ti fanno sentire un po meglio. Perlomeno non ti intralciano, che la vita è già così stancante a volte..

Rick Owens i vestiti li sa pensare e fare, poco gli frega quale sia la taglia. Perdipiù non è neanche fesso: lo sa benissimo che il mercato delle over è vastissimo e ancora quasi terra da esplorare. Lo sa benissimo che le cosiddette minoranze sono in realtà delle folle.  Mettici pure la voglia di scardinare qualche luogo comune, ed ecco che il cocktail perfetto è servito.

Speriamo che altri prendano esempio e imparino che le vere rivoluzioni sono altre, ma che le piccole sommosse si vincono con il cuore e con la testa.

Uma Wang: un niente complicato.

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Bello?

Uma Wang fa parte di quel gruppo che io chiamo i minimalisti di ritorno: abiti scabri, asimmetrie, orli incompleti, lo ying e lo yang del bianco/nero, decorazioni zero.

Mi chiedo, guardando la sfilata, se è proprio necessario a queste donne, intellettualmente complesse, mostrare sempre quell’aria sfatta da dopo-acquazzone (vedi sfilata Prada AI2013-14), e circondarsi di musiche che sono un tripudio di violini isterici al limite del masochismo o della crisi di nervi.

Aggiungo che per star bene in questi abiti e con questi colori ci vuole un fisico bestiale, o forse nemmeno, visto che persino le mannequins appaiono dimesse e scialbe.  Mi sembra una moda punitiva, come di chi abbia fatto incetta di tutta la moda possibile e infine si dedichi a un’immagine pre-raffaellita volta all’espiazione (di non so bene cosa).

Strano a dirsi per una quasi debuttante.

Balenciaga forever.

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Bello.

Il volto della modella iconica Kristen McMenamy non si vede, però sappiamo che è lei: traspare addirittura dalle pose, quella sua fisicità speciale.  Il fotografo è Steven Klein, occhio attento e raffinato. Il marchio arriva da uno dei nomi più geniali dell’intera storia della moda. Il direttore artistico del marchio è attualmente Alexander Wang, non più una promessa, ma, a giudicare da questi lavori, ormai una conferma.

Si può fare qualcosa che sia degno di nota, riferendosi al passato? Si può rinnovare senza snaturare, o negare, o peggio copiare?

Le immagini della campagna pubblicitaria  Balenciaga ai/2013-14 parlano chiaro.  Citazioni, rispetto della storia, attenzione al dettaglio.  Poco fumo, molto arrosto.

Tendenze defilate: il sacco delle patate.

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Brutto.

C’è ancora qualcuno che ci vuole col cilicio, pronte a fustigarci o, nel migliore dei casi talmente insignificanti da sembrare trasparenti: Musso pe2014.

Minimalismo militante o di frontiera.

La moda al contrario.

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Brutto.

Puro realismo contemporaneo da Dolce&Gabbana: abiti di plastica e gilè di pelo in estate.

Ci sono architetti che progettano e fanno realizzare edifici che sono uno scempio per la vista, il paesaggio, ma soprattutto per la vivibilità. Ho sempre pensato che la pena ideale per questi personaggi sarebbe costringerli a vivere nelle loro creature per almeno qualche mese.. Mi piacerebbe allo stesso modo vedere come se la caverebbero i due stilisti in quegli abiti in una qualsiasi giornata estiva.

Il buio oltre gli spalti.

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Brutto.

Queste splendide foto di Stefania Bonatelli sono eloquenti.  Avrei anche potuto intitolare questo post il lato oscuro della moda, ma il concetto di buio mi pare più appropriato. Il buio che isola, mettendo in scena al suo opposto un ego che si alimenta spesso di se stesso.  Nessuno guarda più alcuno; ognuno guarda solo se stesso. La sfilata, i vestiti sono solo il pretesto per mostrarsi. Ne nasce una solitudine infeconda, una incapacità di connettersi davvero con il mondo.

Poi, sotto la luce accecante del giorno il trucco e i lustrini diventano poca cosa.

Come succede nel circo vero, finita la magia dello spettacolo, scopri che le belve sono spelacchiate e il domatore ha le toppe sui vestiti lisi.

Quella (quasi) insostenibile leggerezza di Fendi.

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Bello.

Ci si può stupire che un marchio che è riuscito a coniugare pelliccia e leggerezza, faccia il minimo sforzo a rilanciare con organze e similari?

Nella collezione PE2014 si respira un’aria zen e non solo per via delle lavorazioni-origami o delle strutture architettoniche filo-moderniste.  C’è calma nella palette di colori: scarichi, ma non slavati.

Nessun proclama, solo abiti che fanno bene il loro mestiere.  Questo non significa essere superficiali o distratti; forse un po realisti si.  Niente di male, in fondo.

La moda non è arte, ma può essere bellezza.

Miuccia la Pasionaria.

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Brutto?

La rivoluzione è fatta. Ormai il resto della Milano Fashion Week non ha più motivo di essere: il Prada-pensiero basta e avanza.  Aveva ragione allora la Wintour, quando affermava di venire a Milano solo per la Miuccia?

Ma parliamo della collezione: destabilizzante e massimalista, come ormai consuetudine. Quale rivoluzione, quindi?

Abiti-manga è la mia prima impressione, però no ci sono anche i riferimenti allo sport (capirai, i calzettoni..). Abiti come campionari di textures  e varianti colori. E l’arte dove la mettiamo? Fosse la prima ad aver usato opere di artisti stampate sugli abiti..  Ma la signora dice di non voler fare né politica né arte, ma solo vestiti. Però afferma anche che  lo sanno tutti che io detesto i bei vestiti.  Allora potremmo dire semplicisticamente che questa è una collezione di brutti vestiti.

Ma nel teatrino della moda le cose semplici non hanno motivo di esistere. Allora succede che i brutti vestiti diventano un fatto culturale, un gesto di rottura, addirittura di coraggio.  E ci vuole coraggio certo a mettere in vetrina di questi tempi un tailleur che costa 110.000,00 euri.  Provocazione?  Grazie, abbiamo fatto il pieno.

Il caos, così come la biancheria al contrario, i murales e le contaminazioni, lo chic radicale della autentica borghesia, l’ironia un po spocchiosa..  Abbiamo già visto tutto.  Si può rivedere, non è un peccato. Semmai un peccato di presunzione è passarcelo per un punto e a capo.

Ma c’è un’ultima considerazione che mi gira per la testa sempre più prepotentemente: questi abiti ideologici, in cui la ricerca della stortura e del dettaglio spiazzante è diventata l’unica ragion d’essere, finiscono per avvicinarsi alla strada molto più di quanto chi li ha ideati vorrebbe (o forse no?).   Intendo la strada vera, quella affollata e raffazzonata delle domeniche pedonali. La chiusura del cerchio è un paragone che agli adepti risuonerà blasfemo: Prada come Desigual e Custo.

Questa si che mi sembra una provocazione interessante.

In definitiva il vero limite di Prada non è tanto la moda che propone (che dal punto di vista sociologico mi sembra anche molto interessante), né il pensiero o le dichiarazioni della stilista stessa, quanto piuttosto la folla di ideologi che la trasformano in un manifesto fin troppo serioso, concettualizzando, sminuzzando le esternazioni.   Dimenticando il concetto basilare: che un vestito è un vestito.