La presenza dell’ago.

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Bello.

NS Harsha è l’artista indiano che ha firmato questa installazione che si chiama Nations (2008).

Mi immagino il rumore delle 192 macchine per cucire di sottofondo. Macchine che cuciono senza la presenza umana, come se una entità invisibile sovraintendesse a tessere ragnatele appena visibili che collegano postazioni e bandiere.

La potenza di alcuni oggetti, a volte.

Tutti i secoli della moda.

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Brutto.

Bizzarra la moda, di questi tempi. Si dibatte tra illusionismo e concretezza.  Qualcuno tenta di darle lustro e spessore, portandola nei musei o tra le parole dei convegni per studiosi e appassionati. Altri la usano come un kleenex, buono per darsi una veloce ripulita.

L’illusione più grande rimane quella della novità, mentre tutto, a ben vedere, si è già consumato sotto questo cielo. A ogni stagione si discute di ciò che è veramente nuovo, quasi fosse un obbligo. E in effetti lo è se la parola moda ha in parte la stessa etimologia di moderno.  Poi però ti capitano tra le mani vecchi articoli, scalcinate riviste del 1941 (!) e scopri che potrebbero essere state scritte oggi e allora immagini che tutto questo fa parte di un mondo che si voleva nuovo, ma che per molti aspetti è nato già decrepito.

Come decrepiti sono i vizi e le umane pochezze che il carrozzone si porta dietro da sempre, se Michel De Montaigne verso la fine del 1500 poteva già declamare:

Onore e fama non sono la medesima cosa, l’onore è più che la fama e la fama, la dea dalle cento bocche, non è che una parte dell’onore, quella parte che dipende solo dall’opinione, che ha bisogno di testimoni che possano riferirne, che vuole che lo si venga a sapere, che ha perennemente bisogno di un palco  e di un pubblico.

Per l’appunto quello che accade ancora oggi, con altri mezzi e lo stesso intendimento.

Elsa in the wind.

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11 - 1938

Bello.

Negli ultimi anni i riferimenti a Elsa Schiaparelli si sono fatti via via più numerosi e insistenti. Complice anche la più volte annunciata riesumazione del marchio, ma non solo. Evidentemente l’accostamento, anche solo di sfuggita, con un nome così pieno di carisma e contenuti, fa gola a molti. E si sa, gli avvoltoi sono sempre pronti quando c’è un boccone in vista..

Di quel disgraziato abbinamento o conversazione impossibile con Prada ho già parlato. Pure ho già scritto di quel tentativo mal riuscito di rispolverare qualche reminiscenza, complice un Lacroix non proprio in forma.  Le ultime notizie sono di uno Zanini all’opera per tentare una mission (possible?) quantomai ardua.

Tutti questi scivoloni o fallimenti mi fanno immaginare che ci sia un elemento clamorosamente mancante in queste storie: la conoscenza.  Siamo davvero sicuri che tutti coloro che si occupano di un sistema così fluttuante come quello della moda abbiano concreta conoscenza di ciò che vanno a trattare? In fondo Elsa Schiaparelli rimane uno dei nomi della storia della moda meno conosciuti, se non per due o tre cose che passano di bocca in bocca. Eppure è una tra i pochi ad aver scritto persino una autobiografia.

Tra l’altro è una lettura che consiglio a chiunque, perché non parla solo di moda, ma svela alcuni dei lati più intimi di una donna che ha vissuto intensamente il suo tempo.

La moda della Schiap rimane legata alla sua persona e al suo modo di concepirla, ma anche al suo tempo, che la mise di fronte a scelte non facili. E’ possibile dire che lei fu la prima a regalare alle donne la consapevolezza che con gli abiti potevano finalmente mostrare una personalità, che i loro corpi parlavano un linguaggio più articolato della semplice appartenenza di genere. Essere donne pensanti non era affatto scontato negli anni ’30:

Ho sempre invidiato (agli uomini) il fatto di poter uscire da soli a qualunque ora. Vagare senza meta per tutta la notte o stare seduti in un caffè senza far nulla sono privilegi che possono sembrare di nessuna importanza, ma che in realtà danno alla vita un sapore molto più intenso e sofisticato.

Se Chanel e Vionnet avevano liberato il corpo e i tessuti, lei fece un ulteriore passo in avanti e mise mano alla liberazione del significato di un abito, della sua interazione con la sfera dei sogni, dell’inconscio. Per fare questo si servì dell’arte, ma in un modo che è ben lontano da molti degli esperimenti (più che altro commerciali) attuali.

La Schiaparelli ragionava come un’artista, pur consapevole che quegli abiti erano comunque destinati a vestire il quotidiano. Un’alchimia che ha dell’incredibile, forse possibile allora anche grazie ad un momento storico irripetibile, forse, semplicemente, il frutto di una mente e di una creatività al di fuori da ogni schema. Tanto superiore da permetterle di capire anche quando lasciare:

Quando il vento ti prende il cappello e te lo porta via, sfidandoti a inseguirlo sempre più lontano, tu devi correre più veloce del vento se vuoi recuperarlo. Capii allora che per costruire con maggiore solidità, a volte si è costretti a distruggere. Che bisogna imparare a parlare la lingua di chi non capisce la differenza tra carne da macello e carne umana..

Pensando a tutto questo, mi accorsi che si era chiuso un cerchio e che non potevo proseguire per la stessa strada senza diventare una schiava; che dovevo allontanarmi da Place Vendome, alle cui tiranniche esigenze ero ormai soggiogata, e che avevo bisogno di un cambiamento radicale.

Una lezione imperdibile per tutti quelli che si avvicinano o che sono già da tempo alle prese con la moda. Prima ancora di accostarsi a questo nome, prima di riempirsi la bocca con nomi che finiscono con il rappresentare solo la smania di rubare qua e là briciole di storia.

Una lezione che non ammette i protagonismi dei personaggi, bensì il coraggio delle persone.

Oui, je suis Inès!

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Brutto.

Inès de la Fressange è un mito: riesce a parlare di niente con una leggerezza davvero charmante..

Racconta che all’ultima fashion week parigina è andata solo alla sfilata di Chanel perché le scenografie create da Lagerfeld sono imperdibili! Dice che l’età è un’attitudine, non un numero. Ci tiene a precisare che è molto indaffarata per la retrospettiva su Roger Vivier. Enfin!

Ma credo che il suo meglio l’abbia dato nella stesura di uno dei libri più inutilmente celebrati della storia della moda: “La Parisienne”.

La Parigina in questione naturalmente è lei, ça va s’en dire, monumento vivente di un classico cliché.  Il libro è la rivisitazione di tutti i luoghi comuni riferiti al vestire e all’apparire in società. Terribilmente scontato, oltre che, a mio avviso, datato, un po’ come la Parigi da cartolina.

A volte la distanza tra l’essere chic e l’essere banali può essere molto breve.

La fiera delle vanità.

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Brutto.

Grazie a (o forse a causa di..!) Paolo Ferrarini sono venuta a conoscenza di questo fenomeno. E non aggiungo da baraccone perché non è assolutamente fashion.  Però, a pensarci bene qualche attinenza c’è pure: non è forse vero che il circo è attorniato da baracconi di solito? E se la moda è spesso paragonata a un circo, in questo caso lo spettacolo è molto vicino alla clownerie.   Già guardare il video su uno dei protagonisti è  istruttivo e anzi, credo proprio che lo porterò in classe per i miei studenti..

Cyprien Richiardi e Gian Maria Sainato, così si chiamano i due ragazzi.  Il primo si autodefinisce party boy, mentre il secondo in un impeto di sincerità dice di essere appassionato per la moda e l’arte.  Bene, le premesse ci sono tutte.

Il sito che i due aggiornano costantemente con le loro comparsate e gli outfit più ruggenti si chiama PROJECT REVOLUTION.  Di quale rivoluzione si parla? Io non l’ho capito.

Guardare le immagini e ascoltare i discorsi di queste fashion victim mi mette addosso una grande tristezza; sento, dietro a quella smania di visibilità, un grande vuoto, quasi a dire: guardatemi, io esisto. La moda in fondo soddisfa proprio in pieno l’esigenza di attenzione, con i colori più sgargianti, l’aggressività di simboli, il patchwork di rimandi, storici e non.  Ma è un gioco al massacro, in un crescendo di eccentricità, fino al risultato di azzerare tutto. Perché è indubbio che a un certo punto, in mezzo a tanti personaggi, si noterà soltanto chi è riuscito a restare ancora persona.

Non me la sento di infierire, sarebbe troppo facile. Naturalmente non è questo il senso del discorso. La moda si porta dietro da sempre questa zavorra di non-sense. Persino agli albori, se lo stesso Charles Frederick Worth (definito il creatore dell’haute couture) si permetteva di declamare: Madame, chi mi ha raccomandato a voi? Per essere vestita da me dovete avere una presentazione. Io sono un artista del livello di Delacroix. Io compongo e una ‘toilette’ è come un’opera d’arte, come un quadro…

Stiamo parlando della seconda metà del 1800, da lì in poi è tutto un susseguirsi di narcisistiche rappresentazioni in ossequio al genio&sregolatezza di stampo artistico.

Oggi, in realtà, la figura del creatore di moda tutto preso dal proprio ego tanto da sfilare lui pure in passerella con una certa enfasi, rappresenta una sparuta minoranza. E’ molto più comune imbattersi nello stilista o direttore creativo totalmente defilato che compare appena alla fine dello show, se compare.  Per la legge del contrappasso però sono apparse queste figure di fenomeni, che si prendono addosso volentieri tutto il carico di esibizionismo di cui il sistema moda sembra non avere più bisogno.

Ma davvero può farne a meno? O non è forse lecito pensare che sia solo un depistaggio, un lasciar fare ad altri il lavoro sporco?

Parole in soffitta: eleganza.

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Bello?

Elegance is a discipline of life. Oscar de la Renta.

La prima immagine che mi è venuta in mente pensando alla parola eleganza è Tilda Swinton nel film ‘Io sono l’amore’: atemporale, apparentemente distante. Nel film l’attrice indossa la maschera del perbenismo, che le si incolla addosso, fino al punto che quando tenta di strapparsela è condannata all’autodistruzione.

Poi mi sono ricordata che nel mio laboratorio/atelier tra i vari ritagli e foto c’è una scritta che dice: il lusso costa meno dell’eleganza.

Mi sono tornati in mente questi particolari leggendo un articolo su La Repubblica di alcuni giorni fa, per l’uscita di un libro – L’élegance – scritto da Nathalie Rykiel, figlia della più nota Sonia.  La designer/scrittrice tenta, in qualche modo, di salvare una parola e un’attitudine che lei stessa non fa fatica a definire obsoleta e vetusta.  E’ un fatto che quando pensiamo a persone eleganti immancabilmente ci riferiamo a personaggi del passato: attrici, uomini di mondo, intellettuali..

Eleganza è stata sostituita da stile, che è un termine realmente fuori dal tempo, che non ha bisogno di riferirsi a un’etichetta, a regole vessatorie: passare inosservati è il massimo dell’eleganza, diceva Lord Brummel. Impensabile di questi tempi.  Ma non solo oggi: giorni fa guardavo un documentario su Diana Vreeland che era solita mettere un po’ di rossetto sui lobi delle orecchie e che affermava che lo stile necessitava di qualcosa di difforme, addirittura volgare.

Persino Gianni Agnelli, portato da molti come esempio di eleganza, non era certo immune da evidenti cafonate: come altro si può definire quel vezzo fin troppo celebrato di portare l’orologio sul polsino?

Quindi la tesi che la morte dell’eleganza sia un fatto di stretta attualità mi sembra infondata. Direi piuttosto che vista da un certo punto di vista – ossia da puristi – la parola corrisponde a una gabbia: immobile, noiosa e tutt’altro che soggettiva. Mentre al contrario il termine stile corrisponde a un significato difficile da definire, proprio perché arbitrario. Ci sono esempi infiniti di stile, mentre l’eleganza ha canoni precisi: niente di appariscente, pochi colori, fantasie minime, poco trucco, pochi gioielli. Insomma poco di tutto.  Viene il dubbio che per essere eleganti si debba ricorrere ad una sorta di ortodossia dell’apparire.

Mi chiedo se ha ancora un senso oggi usare questa parola. Definire una persona ‘elegante’ non è un po’ come tentare di salvare una specie in via di estinzione?  Se si sta estinguendo forse un motivo deve esserci.. La teoria dell’evoluzione prevede una selezione naturale e se l’eleganza non ha gli anticorpi per sopravvivere al tempo, credo sia più saggio riporla negli armadi sotto naftalina.

O lasciarla nei musei.

La scoperta dell’acqua (fredda).

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Bello.

Yurika Nakazono e Marie Saeki hanno fondato un marchio, Terra New York, dopo essersi chieste come mai in una città come New York (ma non solo, è chiaro), dove il tasso fashion è altissimo, quando piove non si sa mai cosa mettersi. La scelta è tra il restare fashion ma bagnarsi dalla testa ai piedi o il rimanere asciutte ma rassegnarsi ad apparire poco chic.

La risposta che le due ragazze si sono date è in questa collezione di accessori, trench e mantelle fatti di poliuretano termo-saldato e biodegradabile (si smaltisce in 15 anni di inutilizzo).  Risposta ecologica, quindi, ma anche e soprattutto molto gradevole per gli occhi, in più traspirante ma assolutamente resistente agli acquazzoni.  Per la cronaca il trench nella foto costa 375 dollari.

Aspettando l’astronave..

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Brutto.

Cosa è successo a Gareth Pugh da farlo propendere per una signorina alla Star Trek per la sua ultima sfilata? Dopo una collezione invernale decisamente promettente, mi sarei aspettata perlomeno che approfondisse il percorso appena intrapreso.

Forse ai fan del marchio quel cambiamento non deve essere piaciuto..  Peccato, perché questa repentina inversione di marcia sembra confusa, non si capisce dove vada a parare. In qualche uscita mi è sembrato di scorgere persino un antico Thierry Mugler.

Certo che l’attitudine ad interpretare il futuro non deve essere presa alla lettera..

Cacharel: comfort-mood.

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Bello.

Cacharel collezione SS 2014.  A questo marchio sono legata per motivi affettivi, grazie ad alcuni abiti che hanno accompagnato la mia vita e quella dei miei figli. Abiti, tra l’altro, che hanno superato quasi indenni la prova del tempo – e non è poco -.

Mi piace constatare che il marchio rimane fedele a quell’idea di stile che ha sempre avuto: leggero e portabile, un poco romantico, ma mai stucchevole. Avvedutamente aggiornato, ma comunque coerente con il punto di partenza.

La fiducia è un bene durevole.

L’ultima sfilata.

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Brutto.

Le sfilate ai quattro angoli del mondo che conta sono terminate e avendo messo un tempo sufficientemente lungo tra loro e il presente, mi sembra il momento adatto a qualche riflessione sparsa.

Per chi ancora si chiede a cosa servono le sfilate ci sarebbero un numero cospicuo di risposte e topos possibili, che sono poi le alternative proposte dai vari marchi o creativi.

C’è quello che usa il termine show in tutto e per tutto. e concepisce quei venti minuti scarsi come un exploit mediatico, capace di trainare, in mancanza o scarsità di altri argomenti.  C’è lo spettacolo che si avvale di mezzi più sostanziosi: arte in primis. Sotto sotto ambisce a diventare costume ed entrare a buon diritto nella storia dei cambiamenti. In realtà si serve dell’arte con fare da antico mecenate: io ti do, tu mi dai.

C’è poi chi intende la sfilata come un parto (doloroso appunto) e inscena travagli che dovrebbero essere pieni di pathos. Ma rimangono il più delle volte scatole vuote a testimonianza del ‘già visto’.  Ci sono i puristi del nudo e crudo: niente orpelli, siamo qui per vendere. Onesti certo, ma noiosi.

C’è la sfilata offerta come il fiore all’occhiello per schiere di fashionistas più concentrati sull’esibizione personale che su quanto avviene in passerella. La speranza, in questi casi, è quella di cavalcare un’onda corta, purchè sia.  Ci sono sfilate di rara bellezza compositiva, che comunque nulla aggiungono a un prodotto che parla da solo. In questo caso sembra che il defilè sia più o meno una prassi.  Ci sono sfilate fintamente divertenti, che strizzano l’occhio alla leggerezza, tirando in ballo la voglia di contrastare la crisi. Ma si intuisce che i primi a non divertirsi sono proprio gli ideatori.

Ci sono poi sfilate che tentano di rompere gli schemi. Difficile, se non impossibile. E’ probabile che sia proprio il mezzo che lo impedisce.  Attualmente c’è chi sta pensando a presentazioni per pochi intimi negli ateliers, come si faceva una volta. Trovo che sia ridicolo tornare indietro per andare avanti.

La questione è certamente anche economica: intorno alle sfilate girano un bel mucchio di soldi e l’indotto che collabora volentieri è notevole e variegato..  Io però resto ottimista, nutro speranze nelle proposte degli outsider, quelli che delle sfilate hanno già fatto bellamente a meno o quasi, trovando un loro modo originale.  Sperimentando magari un futuro ancora troppo lontano per tutti, non per loro.