Regine d’Africa.

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vlisco

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Bello.

Vlisco è il produttore olandese di questi splendidi tessuti che, non a caso, sono venduti per il 90% in Africa. L’azienda ha una storia antica che risale al 1846 e che sembra essere il filo conduttore di questa mirabolante collezione immaginaria.

Il fotografo Koen Hauser insieme all’art director Maarten Spruyt hanno realizzato il servizio fotografico che si ispira per gli abiti alla storia della moda occidentale e che mette in luce la magnificenza dei colori e delle stampe di questi tessuti.

Un’estetica indubbiamente affascinante, più di molte vere collezioni che tentano di ispirarsi al mondo africano, ma che rimangono in un limbo privo di autentica originalità.

Come il vento del Nord.

Yvonne Laufer 2

Yvonne Laufer 3

Yvonne Laufer 1Bello.

Si chiama Yvonne Laufer la designer danese di questa collezione intitolata Void.  Il vuoto è il tema intorno a cui sono elaborati tutti gli abiti.  Il vuoto, concetto astratto per eccellenza, anzi potremmo dire per assenza.  Eppure dal vuoto Yvonne pesca una incredibile varietà di possibilità. Lei lo chiama ‘spazio negativo’ e sembra realmente affascinata dalla non-materia, fino al punto di calarsi nei panni di una provetta scienziata e procedere per sperimentazioni, attraverso tagli al laser ed innesti di materiali opposti.

L’esplorazione procede fino ai confini tra forma e non-forma, fino all’interno dei tagli, dove, come nei buchi neri, è più percepibile quel vuoto difficile da raccontare.

I colori creano una sensazione di apparente immobilità. Solo apparente, perché in realtà negli spazi creati dai tagli si intuisce che l’aria non fa fatica a circolare. Così come il vento delle idee, che soffia con vigore dove c’è fermento.

Un abito eterno.

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Bello.

Avevo scritto alcuni giorni fa di questo evento: Eternity Dress al Museo Galliera di Parigi, che vedeva Olivier Saillard insieme a Tilda Swinton impegnati in una inusuale performance in onore di quella che veniva chiamata ‘archeologia sartoriale’.  In quel post raccontavo le mie perplessità riguardo alla definizione e alla stessa operazione. Ma devo fare ammenda, e infine con autentica gioia ricredermi.

Ho ricevuto da Parigi una lettera dall’amica Clara Tosi Pamphili, che è riuscita a trasmettermi il senso e l’atmosfera di un rito, ancor prima che di un mestiere, o un fatto artistico.  Ecco, è così che ho sempre pensato ai gesti di un sarto, e Clara magicamente è entrata in sintonia col mio pensiero.

Questa è la lettera:

“Adriana cara,

ti scrivo da Parigi. Novembre é quasi finito, fa freddissimo, sono qui per lavoro, pensavo di vedere quello che normalmente una città come questa può offrire in un momento di ordinario calendario e mi ritrovo a non avere il tempo di “guardare tutto”. In tutto lo sconforto di tante cose bellissime a confronto del poco che c’è da noi una mi ha ferito più delle altre.

“Eternity Dress” é la seconda collaborazione fra il Palais Galliera, quel meraviglioso museo della moda, e Tilda Swinton.

Ti dico subito che il primo sentimento é stato quello dell’importanza della performance all’Ecole des Beaux Arts: i biglietti già esauriti dal mese di gennaio, l’ansia della lista d’attesa e l’entusiasmo di riuscire ad entrare.La seconda sensazione é stata l’invidia per un paese che riesce a parlare di moda mettendo in collaborazione istituzioni, come un museo e l’università, facendo una performance artistica contemporanea capace di rappresentare degnamente il rito del lavoro sartoriale.

Adriana tu sai quanto parliamo di artigianato, quante mostre e fiere e campagne pubblicitarie si montano sulla promozione di attività creative manuali cercando di ricreare nuovi interessi. Siamo riusciti a convincere i giovani che cucinare é molto cool ma non siamo riusciti a convincerli che fare il sarto che sa fare un abito lo sia quanto essere stilista.

Tutta la performance racconta la realizzazione di un abito: Olivier Saillard, direttore del Museo Galliera, con un metro intorno al collo e con tutti gli strumenti tradizionali misura il corpo di Tilda, insieme riportano le cifre sulla carta. Fanno un esercizio di modellistica. Compiono un rito per realizzare “Une robe, une seule” un abito, uno solo. E’ uno spettacolo commovente, accompagnato da una musica perfetta che sottolinea la voce di lei quando scandisce i numeri delle misure, i tipi di colletti o quando elenca i  couturier cambiando posa ad ogni nome.

Lei é l’abito che indossa, lei rifiuta decori inutili, lei arriva all’essenza di se stessa grazie alla conoscenza delle proprie misure, quelle che permettono al suo corpo di muoversi con eleganza.

Avrei voluto che lo vedessi, tu che sai giudicare, avresti applaudito anche tu come tutti quelli che erano lì, saresti stata colpita da come si possa parlare di archeologia di moda prima che di fashion system.

Un capolavoro. Volevo dirtelo.

Tua

Clara”

Grazie Clara.

Una storia italiana (di ago, ditale e avanguardia).

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Bello.

Germana Marucelli è un altro di quei nomi poco, pochissimo noti all’interno della storia della moda italiana. Fortunatamente è di questi giorni un evento che restituisce al suo lavoro il giusto peso.

Germana era innanzi tutto una sarta, bellissima parola, che chi mi conosce sa quanto io tenga in considerazione.  Ma naturalmente non era solo questo. Diciamo che partiva da questa sapienza tecnica, altissima, per potersi esprimere anche a livello intellettuale.  Un’intellettuale del cucito, si potrebbe dire, e a chi storcesse il naso davanti a questa definizione suggerirei di andarsi a leggere la biografia, che contempla collaborazioni con artisti del calibro di Piero Zuffi e Getulio Alviani, mentre i suoi giovedì erano frequentati da personaggi quali Giò Ponti, Savinio, Casorati, Fontana, Quasimodo, Zanzotto, ecc.

Germana Marucelli era una donna concreta ma con un grande talento nell’annusare le tendenze e il futuro: è documentato dai suoi modelli il fatto che prevenne il new look quando ancora non era nemmeno nato. Ma si sa, una sartina italiana non avrebbe potuto certo competere con Monsieur Dior..  Però poteva ispirarsi a Picasso, Mirò, i surrealisti, e lo fece.

Fu attiva dagli anni ’20 fino al 1972  inventando tutto ciò che poteva e catturando l’aria del tempo come pochi altri. Lavorò nella Milano che non era ancora stata invasa dal prêt-à-porter, vestendo le donne più esigenti del suo tempo, italiane e non. Non si curò di quelle correnti sotterranee che stavano invadendo il mondo della moda per trasformarlo in gran parte nel circo che sarebbe diventato. Questo le costò un effettivo isolamento negli ultimi anni della sua carriera e credo anche l’oblio di cui il suo nome ancora risente.

Ci sono tesori nella storia della moda italiana che non brillano ancora quanto potrebbero e dovrebbero. E’ un vero peccato, ma anche un dovere per chi si occupa di questo settore, provare a scostare un po’ di polvere.

Umit Benan: un gentleman a Istanbul.

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Bello.

Mi occupo poco di moda maschile, come si può vedere dai miei post, ma la sfilata SS. 2014 di Umit Benan mi ha davvero conquistata.

Effendi si intitola la collezione ed è chiaramente un omaggio alle origini turche dello stilista. Un omaggio sentito ed emozionante, si intuisce.  L’eleganza che traspare è davvero insolita, a metà strada tra rimandi etnici e classicità.  L’etnico è ripulito da dettagli inutili, fino a diventare un quasi folklore minimalista, mentre per il classicismo la consulenza per Trussardi ha lasciato un segno ben evidente.

Bello anche il video che documenta la preparazione della sfilata, in un clima che appare disteso, quasi da festa turca.  Un bell’esempio di vita che traspare dagli abiti e abiti che raccontano uno stile di vita.

L’orgoglio italiano (galline alla riscossa).

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Brutto.

Nasce nella rete e si diffonde a macchietta d’olio quello che si autodefinisce ‘italian pride’, a difesa di un ingarbugliato concetto di stile e avanguardia industriale che non contemplano il termine artigianato. Termine ritenuto ormai off..

Stranisce però notare che chi lo propone faccia madornali errori di sintassi. Ma si sa, la fretta, la tastiera del telefonino.. Innumerevoli sono gli alibi.  Ma anche la lingua (italiana) richiede rispetto, non solo lo stile.  Non me ne vogliano i diretti interessati, ma parlare -o scrivere- in una piazza significa anche esporsi volutamente a delle critiche.

L’orgoglio per le proprie radici è cosa sacrosanta, ma riguarda, credo, ogni singola nostra giornata e soprattutto la cura che mettiamo nello stare al mondo.  Parlando di moda, la storia italiana documentata ci racconta di un gusto e un saper fare eccellenti.  Basterebbe che ogni operatore di questo settore ragionasse e agisse solo dopo aver realmente masticato e digerito quella storia.  Credo che allora davvero il cambiamento sarebbe radicale.

In realtà il divario tra le effettive eccellenze (tra cui grandi artigiani, Ferragamo per esempio..) e i troppi finto-esperti è sconsolante.

Dopodiché assistiamo e leggiamo di esempi di grande ignoranza: artigianato scambiato per bric-à-brac, arte applicata questa sconosciuta, fiere paesane che si fregiano di proporre vero artigianato artistico..

Infine, sempre sul tema dell’artigianato, mi irritano molto quelli che pensano che fare il sarto/a significhi produrre abbigliamento di serie B, invece di riflettere sul fatto che probabilmente si tratta di un mestiere -o una specie- che andrebbe protetto, perché depositario di un sapere fondamentale, anche e soprattutto in termini di innovazione. Suona strano, lo so, ma l’innovazione quasi sempre parte dalla tecnica.  Dimenticando anche che sarto/a è la traduzione dal francese di couturier.  Ma quanto suona diversamente questo termine, vero?

Il breve addio. C’est la vie.

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Bello.

Ann Demeulemeester lascia la sua griffe per motivi personali con una lettera vergata a mano.

Jil Sander lascia il suo marchio per motivi personali.

Frida Giannini pensa al suo futuro lontano dalla moda per prendersi cura della sua vita personale.

A me sembra un bel modo di dichiarare al mondo che ci sono cose più importanti della moda e del proprio ruolo nel mondo del lavoro. Siamo prima di tutto persone e il successo, così come la presenza mediatica o tutti gli allettanti benefit del settore non possono farcelo dimenticare.

La cosa più difficile è lasciare quando ancora il successo arride, ma in ogni caso lasciare è appannaggio solo delle menti più lucide. Richiede visione dei limiti e rispetto verso se stessi.  Non sfugge il particolare che a farlo in questo caso siano tre donne.

Le visioni di un ex visionario. Ovvero la parabola del signor Rosso.

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Brutto.

Non trovate che Renzo Rosso (patron di Diesel, Maison Martin Margiela e Victor&Rolf e in più produttore e distributore di DSquared2, Just Cavalli, Vivienne Westwood e linea uomo di Jacobs) assomigli sempre più a Beppe Grillo?

Lui però dice di votare Matteo Renzi, per cui spende -tante- parole benevole.  Nella sua ultima intervista a La Repubblica rovescia fiumi di ottimismo propositivo, dall’alto del suo quasi-impero tra acquisizioni e partecipazioni.  Peccato che la maggior parte delle sue affermazioni suoni come una tiritera fiacca del già sentito e già visto a oltranza:  Gli imprenditori italiani non hanno una visione globale.  Bisogna imparare a fare squadra.  Ridare rispetto al nostro panorama manifatturiero.  I giovani devono credere nelle proprie visioni. Ecc.

Tutte cose belle, anzi bellissime, ma quando il giornalista gli chiede come procedono i lavori con la Camera della Moda (che già sarebbe un buon inizio per fare qualche cambiamento) lui ammette allegramente che non hanno ancora fatto niente.

Poi le incongruenze procedono sul fronte dell’acquisizione di una parte del pacchetto del marchio Marni . Rosso definisce creazioni che possiedono un lusso gentile i prodotti di questo brand, ma subito dopo non esita a dichiarare che ha intenzione di spingere l’acceleratore del marchio verso un prodotto più democratico. Insomma il solito ossimoro del lusso democratico, che non vuol dire nulla se non vendere, vendere, vendere..  E già tremo all’idea di vedere cosa accadrà dello stile di Marni.  Vi ricordate di Maison Martin Margiela?.. (Quello che era prima dell’arrivo di Rosso naturalmente).

La chicca finale: ..se un giovane vuole fare il salto di qualità deve affidarsi a un grande gruppo. Nel mondo sono tutti alla ricerca di idee valide su cui investire.

Quale mondo frequenta il signor Rosso? Il mondo ideale, di sicuro.

Le invasioni germaniche.

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Bello.

Un’altra designer tedesca: Christa van der Meer.  Non deve essere un caso che la Germania, unico pezzo d’Europa esente dalla crisi, sforni creatività e propositività.

Christa ha già collaborato con Henrik Vibskov ed è anche una eccellente illustratrice, basta dare un’occhiata ai lavori sul suo sito.

I suoi abiti risentono di un evidente sperimentalismo, ma ciò nonostante lasciano intuire un gusto radicato, cromatismi e accostamenti originali: l’Africa che tiene a braccetto il Nord, stampe e forme prese da costumi tradizionali ma sovra-dimensionati.

C’è una certa leggerezza in queste prove tecniche di collezione, che non è proprio ironia, ma ci si avvicina.  In ogni caso penso che quei colori e quelle fantasie siano una gioia per gli occhi. Almeno per i miei.

Iper-realtà in bianco.

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Bello.

Si chiama Melitta Baumeister questa giovane designer tedesca con sede a New York.  La sua ultima collezione sembra smaterializzarsi a contatto con la luce. Gli abiti stessi diventano luce e subito dopo quasi assenti.  Quel bianco assoluto fa male agli occhi, sembra frutto di una scelta che taglia fuori ogni distrazione.

Si intuisce una frequentazione abituale con il mondo dell’arte, installazioni in primis, ma anche un’attenzione per la forma intesa come puro design.  Eppure, con precisione quasi chirurgica, Melitta riesce a tirar fuori da tutto questo piccoli scampoli di poesia, come frammenti di iceberg.