Bello.
Collezione autunno/inverno di Angelos Bratis.
Sensazione liquida e sapiente uso del moulage. C’è nell’aria questa voglia di couture, che è ossigeno per la moda.
Bello.
L’artista Mario Vespasiani qualche tempo fa mi ha inviato il materiale relativo al suo ultimo, interessante progetto: Mara as Muse, che comprende, oltre alle opere, un cortometraggio e un videoclip ispirato a questa figura, la musa per l’appunto. Dopo uno scambio di opinioni è nata la voglia di partecipare alla discussione con un contributo che riguarda la moda. E’ naturalmente una riflessione parziale, che conto di riprendere in futuro, dato che il tema mi appassiona.
Le Muse e la Moda
Nella descrizione delle nove Muse, figlie di Zeus, nessuna sembra dedicarsi al campo dell’abbigliamento, eppure la moda da sempre non ha saputo fare a meno di queste figure mitiche quanto modernissime.
Nella moda il termine assume un significato specifico, che Quirino Conti ha sapientemente descritto nel suo libro “Mai il mondo saprà. Conversazione sulla moda”:
Lei sola, con sprezzo e indifferenza, oserà indossare ciò che, unicamente per lei e per la sua audace, sperimentale temerarietà, il couturier aveva azzardato. Ne diverrà l’amico, il confidente, e da un solo sguardo veloce e saettante, da un silenzio, da un diniego o da un troppo sonoro entusiasmo egli saprà trarre conclusioni preziose ed essenziali, per poi redigere e ridisegnare in forme, colori e materie quel particolarissimo e inconfondibile stile.
Qualcuno l’ha definita addirittura “la creatura che genera il suo autore”, il che ci fa intuire quale rapporto di reciproco scambio, spesso essenziale, si instaura tra i due in un determinato periodo o a volte per tutta la vita. E’ il caso di Isabella Blow, scopritrice di un giovanissimo e immenso talento come quello di Alexander McQueen e poi divenuta sua musa imprescindibile; due personalità talmente in simbiosi da condividere persino la stessa morte suicida. Sembrano confondersi così anche i confini tra genio ispirato e musa ispiratrice: quale dei due crea per primo? Ma in questo caso appare forse qualcosa di più estremo: l’incapacità di continuare a creare in assenza di colei che aveva rappresentato l’ideale in carne ed ossa.
La musa per un couturier era ed è spesso anche modella, così che Yves Saint Laurent arrivò a dire che una vera modella può anticipare la moda di dieci anni. Giusto per rimarcare ancora l’importanza in termini di ispirazione della musa, che può rappresentare il punto di arrivo di un percorso creativo, mentre ancora si sta svolgendo; come dire la sintesi in immagine di un ideale.
Chi sono state le muse dei padri della moda? Charles Friederick Worth, l’inventore della haute couture, fu il primo ad utilizzare una modella per presentare le sue invenzioni. Quella prima modella (una commessa del grande magazzino in cui lavorava all’inizio della sua carriera) divenne poi sua moglie e musa ispiratrice, colei che indossava le sue creazioni più innovative e le pubblicizzava con la sua persona nei luoghi in cui si andava “per farsi vedere”. Lo stesso fece Paul Poiret, il re della Belle Époque, sposando Denise Boulet, donna di una bellezza moderna, per cui era considerata una delle signore più eleganti ed estrose di Parigi. Dopo di lui arrivarono le grandi donne della moda: Coco Chanel, Madeleine Vionnet ed Elsa Schiaparelli. La prima, Coco, cambiò le carte in tavola divenendo musa di se stessa, esemplificazione vivente della sua moda che era definita “la povertà di lusso”. Lei, con il suo taglio alla garçonne, gli abiti maschili e la cascata di gioielli falsi. In realtà anche lei ebbe bisogno di una figura ispiratrice, Misia Sert, che la introdusse negli ambienti artistici della Parigi effervescente delle avanguardie. Misia era colta, ricca ed eccentrica, tutto ciò che Coco avrebbe desiderato essere. Tutto ciò che la sua moda avrebbe dovuto rivestire.
Per Christian Dior la musa ispiratrice era Mitzah Bricard, al suo fianco sin dagli esordi e che lui definì: una di quelle rare persone di oggi la cui unica ragione di vita è l’eleganza. Una donna con l’allure di una diva e lo stile innato di un’eroina chic. Qualcuno potrebbe erroneamente immaginare una fashion-victim dei nostri giorni, ma si sbaglierebbe. In qualche modo Dior descriveva un vero, autentico dandy al femminile, in un’epoca in cui questa figura aveva ancora una possibilità di esistere.
Per Christobal Balenciaga le cose andarono un po’ diversamente: tanto fu tardivo Dior con il suo ingresso nella couture, tanto invece fu precoce Balenciaga, che si racconta ebbe la sua prima, indimenticabile musa nella marchesa Blanca Carrillo de Albornoz y Elio. La leggenda racconta che, ancora adolescente, rimase folgorato dalla sua eleganza mentre usciva da una chiesa. Audacemente le rivolse la parola, promettendole di confezionarle un abito simile a quello che indossava. Evidentemente la sua audacia era pari alla sua bravura, perché la marchesa divenne poi la sua protettrice e mecenate, oltre che prima ispiratrice di uno stile sontuoso e senza sbavature.
Un capitolo a parte merita la Marchesa Luisa Casati, musa di artisti ma anche di couturier come Fortuny, Poiret ed Ertè. Figura eccentrica ed eccessiva per eccellenza, con i suoi occhi bistrati, il viso bianchissimo e i capelli fiammeggianti, colei che a tutti i costi voleva essere un’opera d’arte.
Da queste poche figure si evince che le muse nella moda sono state sempre anticipatrici di un tempo ancora da venire. Eroine di una avanguardia difficile, a volte impossibile da capire per i loro contemporanei. Una boccata di futuro per i creatori di moda, che hanno attinto alla loro modernità per immaginare la donna che le altre donne avrebbero desiderato essere, prima ancora di saperlo.
Per Yves Saint Laurent, protagonista eccellente della moda del ‘900, nonché personalità sfaccettata, una sola musa non era sufficiente. La sua complessità fu rappresentata da due figure agli antipodi e complementari: Loulou de la Falaise e Betty Catroux. La prima il lato gioioso e solare, la frenesia della creazione in atelier, la seconda il lato oscuro del genio, notturna e destabilizzante. Entrambe indispensabili e rappresentative di una moda che poteva vestire donne così diverse, ma sempre uniche. Alla morte di Loulou de la Falaise, nel 2011, i giornali titolarono: L’ultima grande musa, intendendo in questo modo sottolineare la fine di un’epoca, di un modo di intendere la moda. Quella che finiva era l’epoca dei couturier, sostituiti prima dagli stilisti e poi dai direttori artistici; la couture sostituita dalle logiche dell’industria.
Che ne è stato delle muse?
Nel secondo dopoguerra i grandi fotografi come Irving Penn, Richard Avedon e Cecil Beaton hanno ritratto donne dalla personalità spiccata che frequentavano abitualmente ancora quell’ambiente inconfondibile dell’haute couture: Marella Caracciolo di Castagneto, Bettina Ballard, Millicent Rogers, Babe Paley, Gloria Guiness… Negli anni ’60 e ’70 iniziò l’epoca delle grandi modelle-muse, che rappresentavano perlopiù un ideale giovanile (Twiggy, Veruschka) per proseguire poi negli anni ’80 con le top-model, camaleontiche e protagoniste assolute, tanto da prevalere sugli abiti. Gli anni ’90 con il minimalismo nella moda riportarono l’attenzione sugli abiti e per un breve periodo sembrò che le muse non avessero più grande appeal. Ma l’illusione ha avuto vita breve se personaggi come Kate Moss da più di vent’anni continuano a ispirare e dirigere le fantasie dei creatori di moda. Non a caso nel 2009 il Costume Institute del Metropolitan Museum a New York ha dedicato al tema una mostra dal titolo esemplificativo: The model as Muse: Embodying Fashion.
Ma possiamo ancora parlare di muse? In realtà il termine oggi suona un poco obsoleto ed è stato sostituito da un’altra parola: icona, che sposta l’attenzione dal contenuto all’immagine pura e semplice. Ed è evidente che in un tempo come quello presente, in cui la velocità fagocita parole e gesti, cosa c’è di più immediato di un’immagine? Le icone di stile, moderne muse, invadono di preferenza i social network, si fanno immortalare dai blogger, dettano legge in fatto di moda sulle pagine delle riviste di tendenza. Per loro parlano le immagini da sole, senza bisogno di spiegazioni o esternazioni colte.
Eppure il termine musa non smette di affascinare i creatori di moda, come dimostra l’ultima campagna pubblicitaria di Marc Jacobs per Louis Vuitton, in cui Steven Meisel immortala sei muse contemporanee, attingendo a personaggi “storici” come Catherine Deneuve, classici come Sofia Coppola e infine più moderni come le modelle Edie Cambell e Caroline Maigret.
Forse qualcuna delle Muse sopravvive, lontana dai riflettori, presente negli atelier dell’alta moda, che incredibilmente resiste ancora in questi tempi di fast and furious. Ma si sa, la vera bellezza è spesso talmente lontana dai luoghi comuni da risultare ostica. E, come in passato, le muse sono ancora quell’avanguardia che necessita di un tempo lungo per essere compresa, troppo lungo. Oggi più di ieri.
Bello.
La cosa che mi ha attratto di più della collezione A/I 2014-15 di Frida Giannini per Gucci è la scelta dei colori: splendenti ma niente affatto sfacciati. Ci vuole una certa dose di personalità per sfoggiare tinte tanto assertive e ce ne vuole anche per scegliere di indossare l’animalier e riuscire nel contempo a non scadere nel cliché della panterona.
Persino io, che non ho mai desiderato indossare quel tipo di fantasia, ho guardato con un certo interesse questi capi che non hanno nulla di eccessivo. Sarà per il taglio smilzo, anzi semplificato che toglie enfasi e si lascia indossare ogni giorno.
Grande sfoggio di pelle nella collezione, eppure non c’è ombra di aggressività. Persino le pellicce appaiono semplificate: si direbbe un’Africa addomesticata . Sembra che la lezione di semplicità che aleggia nell’aria sia stata colta a dovere.
E’ un po’ diversa dal passato questa donna Gucci: meno ostentazione, un realismo poco incline all’apparire ad ogni costo. Sintomo dei tempi.
Bello.
Era il 1995 e Claudia Koll insieme ad Anna Falchi e Pippo Baudo presentava Sanremo. A vestirla era Gianni Versace, lui in persona. Ed era evidente.
Quasi venti anni fa, prima che lo stilista fosse ucciso, prima che la Koll decidesse di lasciare il mondo dello show biz per dedicarsi a cose di ben altro livello e utilità.
Quanta vita e quanta moda è passata da allora, eppure quegli abiti, tanto criticati in quel momento, rimangono esempio di vera creatività. Attuali ancora oggi e modernissimi allora, tanto da non essere apprezzati come succede a tutto ciò che è davvero moderno.
E non è un caso che qualche museo della moda abbia deciso di esporli.
Brutto?
Nell’ultima campagna pubblicitaria di Versace compare Lady Gaga, che dopo Madonna rinsalda la liaison tra la casa di moda e il versante glam/pop della musica, oltre che la predilezione per stars dalle origini italiche.
Quello che mi stupisce però, è la scelta lampante di clonare il personaggio a immagine e somiglianza della direttrice creativa. Ho immaginato che Donatella Versace ambirebbe, pure lei, a far parte della schiera degli Highlander, tanto da rendere immortale la sua immagine anche attraverso tutto ciò che tocca, testimonial comprese.
E avrebbe potuto esserlo, a buona ragione, se non fosse che il suo viso si è andato deteriorando molto in fretta, troppo per poter far parte dell’ambito gruppo. A dimostrazione del fatto (se ancora fosse necessario dimostrarlo) che non tutto si può comprare.
Bello.
Si chiama J. W. Anderson ed ha appena sfilato a Londra. Non lo conoscevo, quindi ho cercato qualche informazione: il nome completo è Jonathan William Anderson, si tratta di un trentenne allampanato di origini nord-irlandesi che ha iniziato nel 2008 con collezioni uomo. Sembra che a Londra spopoli tra i trend-setter più giovani.
Alcuni pezzi di questa collezione sono interessanti per il tentativo di includere tagli un po’ spericolati. Mi piace quell’aria leggermente rigida, che però segue il corpo senza troppa difficoltà.
E’ piacevole anche il modo in cui Anderson definisce la sua ragazza ideale: una persona capace di perdersi in un’idea.
Brutto.
Finita la fase Louis Vuitton, Marc Jacobs deve essersi fatto due conti in tasca e aver deciso che non è più tempo di grandeur. Dall’ultima sfilata per Vuitton a questa a suo nome sembra passata un’era piuttosto che solo pochi mesi. Dai fasti simil-belle époque siamo passati al pigiama di lanetta declinato in colorini sciapi.
Potrebbe essere un minimalismo di ritorno. Ma siamo proprio sicuri che si tratti di una buona idea? E che dire di quel rivangare gli anni ’70 in chiave geometrica e anche un po’ borghese?
Sinceramente credo che avrei fatto meglio a continuare ad ignorare le sfilate.
Bello.
Lo so, le sfilate stagionali imperversano ormai da alcuni giorni, ma io confesso che finora me ne sono altamente infischiata. Mica per posa, è che ancora non mi va. Lascio ai giornalisti di professione l’incombenza di stare sempre sul pezzo. Questo è il bello di non avere padroni, almeno per quanto riguarda la scrittura.
Invece mi concentro su un accessorio che mi piace da sempre: i guanti. Quelli in foto fanno parte della mia piccola collezione. Mi sono stati perlopiù regalati e questo me li rende ancora più cari.
Comincio ricordando un paio di lunghissimi guanti di capretto bianco immacolato, prestatimi dalla moglie di un ex-ambasciatore per partecipare a una festa anni ’20 (erano i primi anni ’90). Passai la serata senza toccare cibo: non volevo togliere dalle mani e dalle braccia quella meraviglia di pelle sottilissima, ma nemmeno rischiare di sporcarli. Finì che uscii dalla festa un poco malferma sui tacchi dopo vari cocktail a stomaco vuoto..
Ho sempre trovato affascinante il gesto di sfilarsi i guanti dalle dita. E’ in fondo un poco come mettersi a nudo. Le mani sono una porzione di corpo che parla per noi così tanto, attraverso la forma, la gestualità, l’uso che ne facciamo. Rita Hayworth in Gilda con il gesto di sfilarsi i lunghi guanti di satin nero ha creato lo stereotipo della sensualità. Inarrivabile, più di innumerevoli spogliarelli.
Non mi piacciono i guanti di lana, anche se li uso per praticità. Trovo che nascondano il carattere delle mani, sono un accessorio del tutto privo di personalità. In più la confezione del guanto di lana non ha nulla a che vedere con il vero rito della manifattura di quelli in pelle o tessuto. I dandy dell”800 per realizzare i loro guanti si affidavano a due artigiani differenti: uno che confezionava solo il pollice, mentre l’altro si occupava di tutto il resto. In un famoso libro di Philip Roth –Pastorale americana- c’è un intero capitolo che racconta le complesse fasi di lavorazione dei guanti. E’ un capitolo che naturalmente ho adorato e letto più volte; è come un libro nel libro per me.
Ultimamente è stato aperto, proprio in una zona abbastanza centrale della mia città, un negozio che vende solo guanti, sembra faccia parte addirittura di una catena. Un giorno sono rimasta incantata a guardare le vetrine perché oltre ad alcuni antichi strumenti per la confezione, veniva trasmesso un video che documentava i gesti sapienti di un guantaio.
In fondo cosa rappresentano i guanti, se non il desiderio di mantenere celata una parte molto privata di noi? Di questi tempi, mi sembra una bella cosa che si torni a voler nascondere dopo che è stato svelato praticamente tutto.
Brutto.
Un anno fa aprivo questo blog. Non mi aspettavo niente di speciale, a dire il vero ero molto delusa e anche vagamente arrabbiata: leggevo e vedevo molte cose che non mi tornavano. Soprattutto non mi sembrava di udire voci autonome che parlassero di moda, come se il settore soffrisse i postumi di una anestesia. Non ho mai pensato di risolvere la questione o di apportare un contributo decisivo, solo mi premeva di non restare a guardare. Ho sempre immaginato che la mia voce, in fondo, si sarebbe persa nel mare della rete, però anche il mare è pur sempre fatto di gocce..
Devo anche dire che la mia scelta di bollare i miei interventi con il bello/brutto è stata spesso contestata, mentre qualcuno mi ha addirittura scritto apprezzamenti sicuramente esagerati, definendo questo blog come l’unico avamposto di critica di moda.
Al di là di risultati belli o brutti, i motivi che mi rendevano delusa e un po’ arrabbiata non sono scomparsi e a distanza di un anno mi ritrovo a pensare ancora le stesse cose di allora. E’ per questo che voglio riproporre quel primo post e lo farò allo scadere di ogni anno (ammesso che io o la voglia di continuare duriamo). A meno che le cose non cambino davvero, per me o in generale:
Adieu
“Mi sento come Paul Poiret quando, al termine della sua carriera, disse: – Mi sento molti abiti sotto la pelle..-.
Ma poi quegli abiti rimasero sottopelle e inespressi.
O forse mi sento come Elsa Schiaparelli quando nella sua autobiografia, poco prima di lasciare le scene, scrisse: – Quando il vento ti prende il cappello e te lo porta via, sfidandoti a inseguirlo sempre più lontano, tu devi correre più veloce del vento se vuoi recuperarlo..-.
Ma poi lei si fermò e lasciò che il suo cappello se ne andasse dove lei non poteva, non voleva andare.
Stamattina ho riletto un brano di uno spettacolo di danza di dieci anni fa. Lo ricordo bene e ancora mi emoziona:
Ho trent’anni e sono in pensione / voglio dire ballerino in pensione / non ho trovato altro che rabbia / che delle mezze soluzioni / non ho più piacere a danzare / nè davanti ai borghesi / nè davanti a nessun altro / non ho più niente da dire sulla scena / allora faccio capolino / questa sera è una confessione / è uno spettacolo che si suicida davanti a voi / per soffocamento.
E il ballerino rimase immobile, per tutto lo spettacolo, oltre un’ora, mentre rivoli di sangue blu gli colavano sul corpo.”