Bello?
Vorrei che le infinite variabili dell’umanità non prevedessero alcun tipo di orgoglio, né sfilate e né chiasso a comando. Tutto questo mi lascia un po’ di stanchezza.
Brutto.
C’è uno scivolone classico per il giornalista che si occupi di moda: la saccenza. Quel parlarsi addosso, consci di aver frequentato tante sfilate, aver visto quintali di vestiti e aver ascoltato innumerevoli descrizioni di stili, ispirazioni, visioni, modelli, muse, donne e uomini ideali.
Tutto questo è esperienza, innegabilmente. Però io credo che l’esperienza sia un filtro, capace di sottrarre il superfluo. Invece mi accorgo che troppo spesso dalle riviste di moda o dai quotidiani arrivano scritti ingombranti, almeno tanto quanto lo diventano sempre più le riviste stesse.
Stessa aria si respira sui social network, dove capita di leggere dialoghi tanto autoreferenziali da sfiorare il ridicolo. Perlopiù incomprensibili per i non addetti ai lavori. Che cosa è questo se non l’affermazione di uno status? Come quel postare i video in anteprima dell’ultima sfilata, che in parole poverissime significa: io c’ero. E quindi io valgo.
Fintanto che la moda sarà intesa come una lobby di super-selezionati adepti non ci sarà spazio per i tentativi di farla percepire come veicolo anche di cultura.
Bello.
Ammetto senza alcun senso di colpa che delle sfilate moda uomo me ne sto moderatamente infischiando. In fondo quel poco che mi è capitato di vedere mi da l’idea che niente di nuovo stia succedendo sotto il cielo: solite tipologie di adolescenti imberbi e gracilini fino al limite del bruttarello. Corpi esteticamente evanescenti, tanto da scomparire quasi dentro agli abiti. Sembra che non sia chic l’uomo avvenente. Gli abiti poi, simulano l’eterna indecisione tra il super-classico sartoriale e la neo-boheme borghese e annoiata.
Ma da Missoni no. Qui il pettorale ha diritto di mostrarsi e gli abiti, che se pure non brillano per originalità, perlomeno non provocano sbadigli.
Bello.
Mario Brunello è un violoncellista di cui ho grande stima, per la musica che suona ma anche per ciò che dice e che fa. Ha scritto un libro che si intitola Silenzio, in cui racconta il senso di quello che Schubert chiamava l’ottava nota.
Brunello ha poi preso un capannone dismesso, l’ha ridipinto, l’ha chiamato Antiruggine e l’ha aperto a chiunque volesse ascoltare la sua musica in divenire: quelle che comunemente si chiamano ‘prove’.
Lui dice: – ..mi dispiace che il lavoro delle prove vada perduto. E’ come buttare via quintali di stoffa per fare un vestito. Cosa ne facciamo di quel materiale? -.
Ecco un parallelo con la moda che nessuno aveva mai pensato.
Brutto?
In piena epoca vittoriana le donne amavano vestirsi di una particolare tonalità di verde. Era il colore di tendenza e non c’è dubbio che le signore in questione fossero delle autentiche fashion-victims perché quel colore era a base di arsenico.
Niente a che vedere con le moderne fashion-victims che nel peggiore dei casi rischiano solo di rendersi ridicole… Indossare quegli abiti, quelle stole, quei copricapi impregnati di veleno poteva provocare orribili sofferenze fino ad arrivare alla morte precoce.
Ma non è tutto. Quegli abiti lasciavano dietro loro una scia nefasta: ne subivano le conseguenze tessutai, sarti, ricamatrici, lavandaie, domestici. E poi ancora mariti ed accompagnatori che stringevano le dame durante i balli mondani e persino i bambini che venivano abbracciati o tenuti in grembo dalle eleganti e letali mamme.
Sembra che le donne (ma anche uomini) continuassero ad usare i tessuti tinti con quel colorante anche dopo che erano stati resi noti gli effetti funesti che comportavano, arrivando persino a impiegarli per tappezzare intere stanze.
Alcuni degli abiti all’arsenico, insieme con altri capi altrettanto dannosi per la salute, saranno in mostra al Toronto’s Bata Shoe Museum dal 18 Giugno fino al 2016 nella mostra Fashion Victims: The Pleasures and Perils of Dress in the 19th Century.
Il direttore del museo tranquillizza i visitatori circa il pericolo che potrebbe derivare dall’accostarsi a quegli abiti (a meno di leccarli, dice lui…).
C’è da credergli?