Djagilev, Nijinsky, Poiret: sete, splendori e miseria..

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Bello.

Mi è capitata tra le mani questa bellissima seta vintage, con cui realizzerò un tubino su misura, e immediatamente ho pensato ai Ballets Russes di Djagilev.

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Subito dopo, in automatico, mi è tornata in mente la descrizione della festa più spettacolare di tutti i tempi, quella tenutasi il 24 Giugno 1911 nel giardino della Maison Poiret: La Féte de la Mille et Deuxième Nuit (La Festa della Milleduesima Notte).

Nella sua autobiografia – Vestendo la Belle Époque – Paul Poiret fa una descrizione dettagliata di questo evento, che fu indimenticabile per tutti quelli che ebbero la fortuna di parteciparvi.

La descrizione prende intere pagine. Fu per il couturier, all’apice del successo, la realizzazione di un sogno personale, anzi la messa in scena della sua immaginazione più sfrenata:  ‘Avevo riunito molti artisti e avevo messo i miei mezzi a loro disposizione per realizzare un insieme che nessuno aveva mai potuto creare fino ad allora..’

Durante la festa fu rappresentato un Oriente misterioso e idealizzato, in cui naturalmente il sultano assoluto era proprio lo stesso Poiret e la sua favorita la giovane e bellissima moglie, Denise Boulet.

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PaulPoiret_modelloLinzeler_1919

Gli ospiti vennero forniti di abiti persiani autentici, per non rovinare l’atmosfera della festa. C’erano fontane che sembravano sorgere da tappeti antichi, c’erano cantastorie che raccontavano brani dalle Mille e una Notte, i viali erano cosparsi di sabbia del deserto e vi passeggiavano animali esotici.

“Alcuni alberi erano coperti di frutti luminosi blu scuri, altri portavano bacche luminose viola (…) In un angolo c’era la baracca della maga, che portava dei diamanti incastonati nei denti (…) Ed ecco il bar delle tenebre, in cui solo i liquori erano luminosi..”

Durante la festa le sorprese si susseguirono a un ritmo incalzante: danzatrici orientali, mercanti che inscenavano compra-vendite, un finto incendio culminato in fuochi d’artificio, suonatori di cetra, cuochi indù che preparavano cibi della loro cucina con ingredienti fatti arrivare per l’occasione.  E poi incensi e mirra fatti bruciare da servitori di colore, piramidi di cuscini orientali, una gabbia dorata abitata da odalische..

Poiret non badò a spese, come al solito. Usò il suo denaro così come faceva con l’immaginazione: senza freni. Un uso magnifico e rischioso che lo portò dagli splendori della Belle Époque allo spegnersi solo e in miseria nel 1944. Non se ne accorse quasi nessuno, un solo giornalista era presente al suo funerale, Lucien François, e così scrisse:

..un uomo non può, come Poiret ha fatto, dedicare la sua vita ad esaltare il prestigio del lusso in una città che vive di lusso e ne ricava tesori; un uomo non può, come Poiret, essere stato colui cui tanti artisti, sarti, industriali tessili, profumieri, devono indirettamente parte della loro fortuna; un uomo non può essere Poiret e morire in tale desolata miseria”.

Il ‘minimalismo’ di Schiaparelli.

1948

Bello.

Dopo aver letto l’autobiografia di Elsa Schiaparelli, Shocking life, mi è sempre rimasta la voglia e la curiosità di approfondire gli ultimi anni di attività della couturier.

Schiaparelli aveva lasciato il mondo nella moda nel 1954 (lo stesso anno in cui sarebbe riapparsa Chanel, sua rivale storica), non senza sconforto: basta leggere alcuni brani del suo libro per intuire quanto le costò questa scelta. Un mondo, con le sue regole e i suoi splendori, era tramontato, la clientela era radicalmente cambiata e  il business stava diventando la parola chiave.

Sfogliando però alcune foto dei suoi abiti di quel periodo, faccio fatica a pensare a una Schiap priva di idee o di inventiva:

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1954

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Tutte le immagini si riferiscono a capi realizzati dal 1948 al 1954.

Credo che si avverta un’urgenza di cambiamento, anche di semplificazione; oserei dire, in qualche caso, addirittura di minimalismo, ma trattandosi di Schiaparelli mi rendo conto che oserei troppo..

Più probabilmente è la dimostrazione che la couturier non aveva perso affatto il suo fiuto per il futuro, né la sua capacità di anticiparlo. Solo i tempi erano cambiati, e non era più principalmente il talento il metro di giudizio.

E ancora mi chiedo, quanti  insospettabili hanno attinto a questa inesauribile fonte di pura e vera avanguardia senza nemmeno menzionarla? Di Elsa Schiaparelli circolano sempre le solite immagini del periodo surrealista, che sono ormai diventate un cliché per riviste, mostre e affini; persino gli omaggi dei vari stilisti contemporanei difficilmente si scostano da lì.

Che sia una strategia ben architettata per confondere le acque e non far risalire alla vera artefice di tanti outfit contemporanei?

A Parigi, gli anni ’50.

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Carven, 1951    –     Jaques Fath, 1954

Bello.

Al Palais Galliera di Parigi è stata inaugurata il 12 Luglio una mostra che non intendevo perdere: Les année 50. La mode en France, 1947-1957.  Confesso che sarei passata da Parigi anche solo per immergermi nelle sale magnifiche di questa istituzione che rappresenta per me il museo della moda.

Gli abiti in mostra non mi hanno fatto rimpiangere il viaggio, per la qualità delle scelte e anche per il modo impeccabile in cui sono presentati: niente fronzoli, ma una cura che si intuisce essere opera di mani esperte.

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Grés, 1956-57

Questo abito della mitica Madame Grés  è uno dei rari esemplari realizzati dalla couturier in un materiale diverso dal jersey di seta o viscosa, con cui era solita cimentarsi. Questo splendido abito è realizzato in velluto di seta cangiante con riflessi beige e rosa églantine.  Ho fatto fatica a non toccarlo..

 

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Balenciaga, 1950-53

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Jean Dessès, 1955    –     Balenciaga, 1958

Un bel match tra i due grandi couturier, ma Balenciaga vince di misura, secondo me. Questo bell’esempio di abito over-size la dice lunga sul controllo che aveva rispetto alla tradizione e all’innovazione. La linea fa pensare a una bambola degli anni ’20, ma le proporzioni annunciano già lo stile degli anni ’60.

Ma Christobal Balenciaga fu un precursore non solo negli abiti, evidentemente, come mette in luce questo articolo del 18 Agosto del 1951 su Paris Match:

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Nell’articolo si mostra per la prima volta dopo 14 anni il volto del couturier (l’inconnu illustre de la haute couture), che era solito celarsi dietro ad una tenda durante le sfilate.  Ho sorriso pensando che nemmeno Margiela si era inventato niente.

 

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Elsa Schiaparelli, 1953

Mi è venuto incontro, improvviso come un coup de théatre, questo abito di velluto rosso della Schiap, italiana di nascita, ma parigina di adozione. Nel 1953 il suo percorso nella moda stava per terminare (avrebbe chiuso l’anno dopo), e lei faticava a dare ancora un senso alla sua presenza nella moda. Ciononostante questo modello mi ha commossa: mi ha dato il senso di una piccola rivolta, contro i luoghi comuni, contro la moda imperante, nel segno di una originalità mai sopita.

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Dior, 1954

Il new look di Dior domina incontrastato e quasi pervasivo in tutta la mostra. Non c’è da stupirsi, era l’unica possibilità per le donne che volessero essere ‘alla moda’ in quegli anni. E non solo in Francia, se si pensa che il 50% delle esportazioni in fatto di moda di quel periodo, era sotto il marchio Dior.  Quello che mi ha stupito è stato leggere che quest’abito è realizzato con tulle grigio artificiale! Chissà perché ero convinta che nell’haute couture si utilizzasse solo tulle di seta..

Tra le poche eccezioni rispetto allo stile di Dior, spiccano alcuni abiti di Chanel, per la semplicità che appare quasi sgraziata rispetto all’opulenza scenografica degli altri abiti. La visione nitida e contro-corrente di Mademoiselle risulta ancora più evidente in questo contrasto ed è chiaro che il valore delle sue proposte sembra quasi una profezia per il futuro che sarebbe stato. Oltre a un buon esempio di coerenza formale.

La mostra chiuderà il 2 Novembre 2014, se passate da Parigi non lasciatevela sfuggire.

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Balmain, 1953

 

Sulle tracce di Gabrielle.

Molte donne eleganti avevano raggiunto Deauville. Bisognò non soltanto far cappelli per loro, ma presto, in mancanza di un sarto, vestirle. Confezionai per loro dei jersey con maglioni di stallieri, golf d’allenamento come ne portavo io stessa. Alla fine di quella prima estate di guerra avevo guadagnato 200 mila franchi d’oro (…). Cosa sapevo del mio nuovo mestiere? Nulla. Ignoravo che esistessero sarte. Avevo una coscienza maggiore della rivoluzione che stavo per provocare nell’abbigliamento? In nessun modo. (…). S’offriva un’opportunità, io la presi. Avevo l’età di quel secolo nuovo che si rivolse dunque a me per l’espressione del suo guardaroba. Occorreva semplicità, comodità, nitidezza, gli offrii tutto questo, a sua insaputa. I veri successi sono fatali.

( C. Chanel)

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Bello.

Passeggiando sul lungomare di Deauville con le cabine che prendono il nome da personaggi famosi (soprattutto divi americani, e noto che Ridley Scott è l’unico con il titolo di Sir) ammiro una bella mostra dedicata ai cavalli. E’ risaputo che couture e corse di cavalli hanno da sempre una liaison intensa: l’ippodromo di Deauville era il luogo preferito per coloro che volevano vedere e farsi vedere.

Di lei (Gabrielle), qui a Deauville si sono perse le tracce. Ne ho cercate invano: troppo tempo e troppa moda sono trascorsi.

 

A casa di Dior.

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Bello?

Qualche giorno fa sono stata a Granville, cittadina natale di Christian Dior e suo buen retiro anche negli anni di grande successo.  La villa tutta rosa in cui ha trascorso l’infanzia il couturier si trova nella parte alta della cittadina, circondata da un giardino pieno di fiori un po’ frou-frou, con un’invidiabile vista sul mare.

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Persino il salon de the esterno risente non poco di tutto questo rosa confetto.

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Che dire poi della testa di Dior che guarda il cielo con un’espressione non proprio felice?

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Ma la parte della visita che mi interessava di più era naturalmente la mostra interna, oltre all’atmosfera della villa, che deve aver influenzato certamente il percorso e le scelte di Dior.

La visita si apre con l’immancabile tailleur Bar, simbolo e vessillo del New Look:

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Degli arredi originali naturalmente non c’è più traccia, ma è facile immaginare quello stile Luigi XVI tanto caro a Dior, anche solo dalle decorazioni delle boiserie, dei caminetti e della scala interna.

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Gli abiti in mostra non sono molti, d’altra parte l’esposizione riguarda più le immagini legate alla griffe che le collezioni vere e proprie.

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E anche qui il rosa la fa da padrone:

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Sarebbe piaciuto a Dior questo piccolo museo un po’ cocotte? Io credo di si: le donne a cui si rivolgeva amavano le atmosfere rilassanti di una villa immersa nel verde, con quel tocco di glamour della spiaggia a poca distanza. Non è difficile immaginare il giovane Dior immerso nelle letture in una di queste stanze, o accogliere gli amici sotto gli alberi del giardino.

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Spiccano in modo inusuale questi due abiti rossi, a mio avviso un poco in contro-tendenza.

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E infine, per fortuna, anche un omaggio al passaggio di Galliano negli atelier.

Ho trascorso un piacevole pomeriggio all’insegna della raffinatezza in un luogo dove tutto è predisposto per non urtare la vista. Poi uscendo ho notato la voliera nel giardino, in cui le colombe prigioniere tubavano, ma il suono somigliava più a un lamento. Mi hanno fatto pensare alle donne di Dior, imprigionate nei corsetti e nei metri e metri di stoffa e crinoline.. e improvvisamente tutto mi è sembrato meno piacevole.