Il canto della Sybilla.

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Bello.

Ho un ricordo forte di Sybilla, legato naturalmente agli anni ’80, quando, insieme a Romeo Gigli, rappresentava il simbolo di una moda intimista e romanticamente concettuale. Ricordo bene le volute arrotondate e scultoree dei suoi abiti e cappotti (anche le scarpe a dire il vero). C’è poi ancora il ricordo di un viaggio a Madrid, in cui cercai invano il suo atelier, forse l’indirizzo era sbagliato, forse non cercai abbastanza..

Insomma Sybilla era il mito vestimentario di noi ragazzi di quel decennio che ci sentivamo un po’ alternativi, noi che con l’edonismo reganiano sdegnosamente (e snobisticamente) non volevamo aver nulla a che fare, noi che preferivamo le spalle scivolate piuttosto che le spalline imbottite, il bozzolo piuttosto che la corazza e i non-colori piuttosto che le tinte fluo.  Erano i tempi in cui la Spagna esportava un design di ricerca autentica, pescando nella propria tradizione, invece che nelle collezioni altrui (Zara ancora non esisteva).

A un certo punto Sybilla è sparita. Qualcuno diceva che il confronto con la dimensione industriale fosse stato l’ostacolo insormontabile, per lei che era un’artigiana nell’anima. Ne ho sentito ancora parlare quando qualche anno fa tentò una collaborazione con Roberto Capucci, ma il successivo silenzio mi hanno fatto intendere che non fu un successo.

Ora è tornata con una sua linea tutta nuova. Certo sono lontane le atmosfere e i dettagli di quei lontani anni ’80, tutto si è fatto più asciutto e sintetico, ma qualcosa rimane di uno stile sottilmente poetico.

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