Sogno di una notte di mezza estate.

madame gres

Bello.

Questo è facile; facile come bere un bicchier d’acqua. Qualcuno oserebbe dire che non è una bella immagine, un abito sublime, una storia affascinante (per i meno informati, l’abito è di Madame Grès)?

Ma non c’è niente di male, a volte, ad andare sul sicuro. Tra mille difficoltà si può scegliere qualcosa di facile come la bellezza degli abiti di Madame Grès, che sembrano eterni.

Ecco, io vi/mi auguro un’estate facile, perlomeno quello che resta dell’estate.

Svegliarsi nelle prossime mattine senza gli affanni e senza quei pensieri che molestano le notti e si allungano spesso anche sui giorni. Vi/mi auguro di dormire notti pacifiche e fresche che al mattino vi lascino un unico pensiero leggero.

Vi/mi auguro di indossare abiti facili: quelli che si indossano velocemente e velocemente si ripongono; con i colori giusti, che vi scaldano al solo guardarli. Gli abiti che pesano come una piuma e si appoggiano lievemente anche sul cuore.

Buon agosto.

Nei sogni delle donne.

 

 

Bello.

C’è chi ha storto il naso quando sulla passerella di Dior per la collezione AW 2017/18 sono comparse le modelle che indossavano quelle tute, che non erano la versione glamour dell’indumento iconico.  No, erano proprio le tute da lavoro che  l’artista futurista Thayaht* aveva inventato già nel 1920. Persino il colore era quello: un blu leggermente stinto, che ricordava i numerosi lavaggi e l’usura.

C’è chi ha immediatamente pensato: -Ma cosa c’entra Dior con quella storia?-  Proprio Dior che per Cocteau era acronimo di Dieu Or, uno dei marchi più lussuosi ed esclusivi, così lontano dal mondo della working class come la luna dal sole.

A ben pensarci c’è voluto un po’ di coraggio a proporre alle esigenti clienti del marchio un indumento che rimanda al lavoro come sussistenza e fatica più fisica che mentale. Certo non quel tipo di lavoro a cui le raffinate signore sono avezze.

Allora mi è venuta voglia di tornare un po’ all’origine di quell’invenzione, e mi sono ricordata che la TuTa non nacque affatto come indumento da lavoro. Thayaht (insieme al fratello RAM) la propose come alternativa al completo classico maschile, ritenuto ingessato e poco moderno. La TuTa rispondeva a criteri di velocità e sintesi: si poteva indossare rapidamente, non necessitava di complicati abbinamenti e permetteva movimenti più dinamici. Insomma era un indumento decisamente più moderno ed è proprio questa caratteristica che ne ha decretato l’enorme successo.

Thayaht aveva già realizzato il modello perfetto e infatti salta subito all’occhio come la versione di Dior sia praticamente la stessa di allora. Quindi cosa c’entra Dior con Thayaht? Io dico che c’entra quel termine citato poco fa: modernità. E’ indubbio che il marchio sotto la guida di Maria Grazia Chiuri (prima donna a rivestire questo ruolo) ha voltato decisamente pagina, e se è vero che solo una donna sa cosa voglia dire indossare indumenti femminili (e di conseguenza cosa vogliono davvero le donne), allora dobbiamo credere che quella tuta sia la cosa giusta al momento giusto.

L’ho già scritto altrove: i sogni delle donne sono cambiati, così come sono cambiate quelle donne che sognavano e ancora sognano. Christian Dior realizzava abiti per signore che facevano vite eccezionali, lontane da problemi contingenti. Quelle donne probabilmente non esistono più.

La tuta del nuovo corso di Dior a me sembra un capo desiderabile. Mi metto nei panni di ogni donna che lavora, si sposta, vive tra impegni vari e quei panni sono proprio perfetti se hanno la forma di una tuta. Tutto qui.

*(Thayaht era in realtà il nome d’arte di Ernesto Michahelles, fiorentino di nascita ed artista eclettico, tra l’altro unico esempio di artista futurista che collaborò attivamente con l’haute couture: indimenticabile il suo lungo sodalizio con Madeleine Vionnet).

P.S. Per la conaca: ho ricevuto i complimenti per l’articolo dal nipote di Thayaht, nonchè figlio di RAM. Complimenti graditissimi!

A Kind Revolution.

Bello.

Il primo approccio con l’universo Mod l’ho avuto grazie a mio fratello, che da ragazzo li frequentava e ne faceva parte. Allora (erano i primi anni ’80) lui girava con i componenti del gruppo musicale degli Statuto, che a Torino erano considerati tra i gruppi più cool del momento.

Io li guardavo con curiosità e anche una certa simpatia: mi piacevano quelle ragazzine con il carrè e i vestitini corti in bianco/nero. Mi incuriosiva quella fede assoluta verso uno stile che era stato dei loro genitori e che, con una apparente illogicità, si metteva in contrapposizione proprio agli ideali di quella generazione.

La cura per il dettaglio, ricordo, era quasi maniacale. Mio fratello faceva impazzire mia madre, perchè i pantaloni non erano mai abbastanza stretti e noi ridevamo per quelle che ci sembravano solo adolescenziali fissazioni.  In realtà i Mod hanno scritto un capitolo interessante della storia dello stile e della moda. Il loro approccio, che avrebbe potuto essere liquidato come l’ennesimo revival, aveva basi politiche e l’intenzione di mettere in atto una vera e propria rivoluzione.

Come in tutte le rivoluzioni, era necessaria una divisa che li rendesse riconoscibili, e loro avevano scelto quella di un Modernismo pre-borghese, ripulito dal decorativismo che sarebbe arrivato nei tardi ’60. Di quel decennio avevano preso solo la spinta verso il futuro e non l’opulenza del boom economico.

Paul Weller è considerato il padre dei Mod, un vero esempio di eclettismo musicale, che è però sempre rimasto fedele allo spirito originario del movimento. In una sua recente intervista parla del suo ultimo album (Kind revolution), della sua vena ottimista, nonostante le difficoltà e l’atmosfera generale.

Usa due parole chiave, che hanno immediatamente destato la mia attenzione: speranza compassione.  Due parole bellissime, soprattutto se messe insieme.  Mi sono chiesta se anche attraverso gli abiti si possano comunicare concetti così fragili e guardando le foto del musicista, oggi quasi sessantenne, ho notato quanto il suo stile sia diventato più fluido.

Dei Mod rimane la voglia di cambiamento, ma quella che era una contrapposizione ferma come i completi neri con camicia bianca, oggi è diventata una rivoluzione morbida con i jeans e i maglioni decorati con una stella.  In poche parole, la capacità di cambiare rimanendo se stessi.

Il mio vestito a fiori.

dark paradise

Bello?

Bisognerebbe ogni tanto passare una notte in un ospedale. Non da pazienti (possibilmente), ma da spettatori. Magari in un pronto soccorso, magari in una stanza di terapia intensiva, con tutta l’umanità dolente o sollecita che la contiene, guardando negli occhi l’essenza di questa cosa fragilissima che chiamiamo vita.

Bisognerebbe aver assistito all’arrivo di un ragazzo in fin di vita dopo un incidente e alle urla incredule di sua madre. Oppure all’impotenza di un medico e alla sua corsa per difenderla questa vita, nonostante tutto.

Perchè lo sappiamo che in un secondo la vita può cambiare, ma finiamo per non ricordarcelo quasi mai.

Bisognerebbe ogni tanto rimettersi al centro, resettare tutta quella confusione che, erroneamente, noi invece chiamiamo  vita. Ricordandoci che l’abito che indossiamo veramente è solo la nostra pelle.

Come scriveva Paul Valery:

Quello che c’è di più profondo nell’essere umano è la pelle.”

Ricordo che indossavo un vestito a fiori la scorsa notte, mentre passavano lente le ore in quel luogo fin troppo colmo di umanità. All’inizio ho pensato che forse fosse un po’ fuori luogo (d’altra parte ero stata colta alla sprovvista), Poi ho capito che non contava nulla, nessuno ci avrebbe fatto caso, perchè, citando la frase di qualcun’altro, l’essenziale è invisibile agli occhi.

 

(Illustrazione di Victoria Brockland, Dark paradise).