Cristobal Balenciaga, “Le Chou Noir”, 1967
Yves Saint Laurent, “Matrioska”, 2002
Valentino, HC p/e 2019
Bello?
Cristobal Balenciaga vince su tutti.
Cristobal Balenciaga, “Le Chou Noir”, 1967
Yves Saint Laurent, “Matrioska”, 2002
Valentino, HC p/e 2019
Bello?
Cristobal Balenciaga vince su tutti.
Madeleine Vionnet
Valentino
Cristobal Balenciaga
Cristobal Balenciaga
Madeleine Vionnet
Jacques Fath
Charles James
Bello.
Quando si dice che la differenza sta nei dettagli, si dà per scontato che chiunque sia capace di notarli. Si dicono cose, a volte, che in realtà non stanno né in cielo e né in terra, perché i dettagli sono di per sé sfuggenti. Amano farsi beffa degli occhi poco allenati o frettolosi.
I dettagli (quei particolari in sordina che eppure reggono l’intera opera sulle loro fragili spalle), richiedono dedizione e premiano solo chi ha la pazienza di affrontare la lenta contemplazione. D’altra parte sono il frutto di menti e mani che di lentezza hanno fatto un mantra.
Chi avrà la pazienza di aspettare in premio la loro stupefatta scoperta?
Bello.
Il video si riferisce ad una mostra del 2011 al Young Museum di San Francisco, California e documenta in modo dettagliato il legame naturale e indissolubile di Cristobal Balenciaga con la sua terra di origine.
Penso che ogni singolo abito di questo couturier racconti una storia affascinante e soprattutto la sua totale abnegazione nei confronti della creazione. E’ probabile, anzi, che la storia stessa della sua vita e il suo pensiero siano condensati in quella dedizione verso il fare abiti.
Per chi si occupa di moda ogni fotogramma di questo video può essere un regalo. Si può comprendere la nascita di un’idea, immaginare il percorso che Balenciaga ha compiuto per elaborare in forme personali i ricordi e l’estetica respirati sin dalla nascita.
Credo che nessuno più di lui abbia convogliato tutte le proprie energie nella ricerca di quella perfezione intravvista come un sogno, eliminando distrazioni, orpelli, dettagli inutili. Realizzando forme così pure da lasciare stupiti ancora oggi, noi abituati a vedere tonnellate di abiti e forme.
La mia sensazione è che tutte quelle altre forme e abiti scompaiano e rimanga stagliata nei miei occhi questa immagine di straordinaria modernità.
Roy Halston. 1970
Madame Grès, 1965
Cristobal Balenciaga, 1966
Bello.
Moderno è ciò che prescinde dal momento, elude il tempo, lo attraversa.
Non è una qualità comune, è un concetto significativo che trova difficoltà ad esprimersi attraverso il linguaggio. Più facile raccontarlo per immagini.
E’ moderno ciò che la cronologia consueta non osa classificare, perché non ne conosce la chiave. Siamo soliti definire così tutto ciò che ci appare contemporaneo, ma si tratta naturalmente di una grossolana semplificazione: le due cose non sono affatto consequenziali. Conosco casi in cui espressioni contemporanee risultano decisamente antiquate e tutt’altro che moderne, mentre esempi di molto precedenti continuano a emanare quella luce di assoluta modernità.
La modernità appartiene a chi si rifiuta di seguire i canoni del suo tempo e sceglie strade ben più astratte, fuori dall’ordinaria estetica dell’epoca che gli è toccata in sorte.
Brutto
Balenciaga autunno inverno 2016/17.
E dopo aver visto l’ultimo scempio di Demna Gvasalia su di un marchio storico a me particolarmente caro, il sospetto si tramuta in qualcosa di più. Penso che sia stato messo in mano a un’orda di giovani e fanatici dell’assemblaggio compulsivo un giocattolo troppo complesso e prezioso. Ecco la nuova generazione di stylist, poco credibili come stilisti, del tutto improbabili come couturier (ma non chiediamo tanto).
Il rischio è sotto i nostri occhi: il giocattolo rischia di rompersi.
Cristobal Balenciaga era colui che Dior (non certo prodigo di lodi) definiva il maestro di tutti noi, e in effetti la perfezione dei suoi abiti era parte fondamentale del suo stare nella moda, insieme a tutto il resto.
Alla luce di questo mi chiedo, ma non era l’heritage dei marchi storici uno dei valori più cospicui, da difendere ad ogni costo? Mi sorge il dubbio che si sia preso un abbaglio, scambiando per storia il vintage dei mercatini del bric-à-brac.
Il disegno appare chiaro, come al solito la tendenza è quella che conta e se la tendenza porta soldi, allora si plaude al genio. Infatti già dopo la sfilata si è parlato di successo. Dando per scontato che lo stilista porterà nelle casse del marchio gli stessi soldoni che sembra aver fatto con Vetements. Eppure i commentatori di settore dovrebbero saperlo che non stiamo parlando dello stesso pubblico..
Bello.
Vale la pena in questa estate caldissima fare un salto a Calais (Francia) per gustarsi una mostra che unisce la tradizione cittadina per il pizzo con il genio di Cristobal Balenciaga, che lo usò costantemente, tenendo fede alle sue origini ispaniche.
Balenciaga – La magicien de la dentelle, questo il titolo della mostra visitabile fino al 31 agosto. Di mostre sul geniale couturier non ce ne saranno mai abbastanza, ma questa mi affascina soprattutto per la scelta del tema.
E mi accorgo solo adesso che quasi tutti gli abiti che ho acquistato da tre mesi a questa parte sono in pizzo. A dire il vero, adoro da sempre questo materiale; così sensuale e al contempo austero in nero, mentre coloratissimo può diventare addirittura visionario.
Carven, 1951 – Jaques Fath, 1954
Bello.
Al Palais Galliera di Parigi è stata inaugurata il 12 Luglio una mostra che non intendevo perdere: Les année 50. La mode en France, 1947-1957. Confesso che sarei passata da Parigi anche solo per immergermi nelle sale magnifiche di questa istituzione che rappresenta per me il museo della moda.
Gli abiti in mostra non mi hanno fatto rimpiangere il viaggio, per la qualità delle scelte e anche per il modo impeccabile in cui sono presentati: niente fronzoli, ma una cura che si intuisce essere opera di mani esperte.
Grés, 1956-57
Questo abito della mitica Madame Grés è uno dei rari esemplari realizzati dalla couturier in un materiale diverso dal jersey di seta o viscosa, con cui era solita cimentarsi. Questo splendido abito è realizzato in velluto di seta cangiante con riflessi beige e rosa églantine. Ho fatto fatica a non toccarlo..
Balenciaga, 1950-53
Jean Dessès, 1955 – Balenciaga, 1958
Un bel match tra i due grandi couturier, ma Balenciaga vince di misura, secondo me. Questo bell’esempio di abito over-size la dice lunga sul controllo che aveva rispetto alla tradizione e all’innovazione. La linea fa pensare a una bambola degli anni ’20, ma le proporzioni annunciano già lo stile degli anni ’60.
Ma Christobal Balenciaga fu un precursore non solo negli abiti, evidentemente, come mette in luce questo articolo del 18 Agosto del 1951 su Paris Match:
Nell’articolo si mostra per la prima volta dopo 14 anni il volto del couturier (l’inconnu illustre de la haute couture), che era solito celarsi dietro ad una tenda durante le sfilate. Ho sorriso pensando che nemmeno Margiela si era inventato niente.
Elsa Schiaparelli, 1953
Mi è venuto incontro, improvviso come un coup de théatre, questo abito di velluto rosso della Schiap, italiana di nascita, ma parigina di adozione. Nel 1953 il suo percorso nella moda stava per terminare (avrebbe chiuso l’anno dopo), e lei faticava a dare ancora un senso alla sua presenza nella moda. Ciononostante questo modello mi ha commossa: mi ha dato il senso di una piccola rivolta, contro i luoghi comuni, contro la moda imperante, nel segno di una originalità mai sopita.
Dior, 1954
Il new look di Dior domina incontrastato e quasi pervasivo in tutta la mostra. Non c’è da stupirsi, era l’unica possibilità per le donne che volessero essere ‘alla moda’ in quegli anni. E non solo in Francia, se si pensa che il 50% delle esportazioni in fatto di moda di quel periodo, era sotto il marchio Dior. Quello che mi ha stupito è stato leggere che quest’abito è realizzato con tulle grigio artificiale! Chissà perché ero convinta che nell’haute couture si utilizzasse solo tulle di seta..
Tra le poche eccezioni rispetto allo stile di Dior, spiccano alcuni abiti di Chanel, per la semplicità che appare quasi sgraziata rispetto all’opulenza scenografica degli altri abiti. La visione nitida e contro-corrente di Mademoiselle risulta ancora più evidente in questo contrasto ed è chiaro che il valore delle sue proposte sembra quasi una profezia per il futuro che sarebbe stato. Oltre a un buon esempio di coerenza formale.
La mostra chiuderà il 2 Novembre 2014, se passate da Parigi non lasciatevela sfuggire.
Balmain, 1953
Bello.
L’artista Mario Vespasiani qualche tempo fa mi ha inviato il materiale relativo al suo ultimo, interessante progetto: Mara as Muse, che comprende, oltre alle opere, un cortometraggio e un videoclip ispirato a questa figura, la musa per l’appunto. Dopo uno scambio di opinioni è nata la voglia di partecipare alla discussione con un contributo che riguarda la moda. E’ naturalmente una riflessione parziale, che conto di riprendere in futuro, dato che il tema mi appassiona.
Le Muse e la Moda
Nella descrizione delle nove Muse, figlie di Zeus, nessuna sembra dedicarsi al campo dell’abbigliamento, eppure la moda da sempre non ha saputo fare a meno di queste figure mitiche quanto modernissime.
Nella moda il termine assume un significato specifico, che Quirino Conti ha sapientemente descritto nel suo libro “Mai il mondo saprà. Conversazione sulla moda”:
Lei sola, con sprezzo e indifferenza, oserà indossare ciò che, unicamente per lei e per la sua audace, sperimentale temerarietà, il couturier aveva azzardato. Ne diverrà l’amico, il confidente, e da un solo sguardo veloce e saettante, da un silenzio, da un diniego o da un troppo sonoro entusiasmo egli saprà trarre conclusioni preziose ed essenziali, per poi redigere e ridisegnare in forme, colori e materie quel particolarissimo e inconfondibile stile.
Qualcuno l’ha definita addirittura “la creatura che genera il suo autore”, il che ci fa intuire quale rapporto di reciproco scambio, spesso essenziale, si instaura tra i due in un determinato periodo o a volte per tutta la vita. E’ il caso di Isabella Blow, scopritrice di un giovanissimo e immenso talento come quello di Alexander McQueen e poi divenuta sua musa imprescindibile; due personalità talmente in simbiosi da condividere persino la stessa morte suicida. Sembrano confondersi così anche i confini tra genio ispirato e musa ispiratrice: quale dei due crea per primo? Ma in questo caso appare forse qualcosa di più estremo: l’incapacità di continuare a creare in assenza di colei che aveva rappresentato l’ideale in carne ed ossa.
La musa per un couturier era ed è spesso anche modella, così che Yves Saint Laurent arrivò a dire che una vera modella può anticipare la moda di dieci anni. Giusto per rimarcare ancora l’importanza in termini di ispirazione della musa, che può rappresentare il punto di arrivo di un percorso creativo, mentre ancora si sta svolgendo; come dire la sintesi in immagine di un ideale.
Chi sono state le muse dei padri della moda? Charles Friederick Worth, l’inventore della haute couture, fu il primo ad utilizzare una modella per presentare le sue invenzioni. Quella prima modella (una commessa del grande magazzino in cui lavorava all’inizio della sua carriera) divenne poi sua moglie e musa ispiratrice, colei che indossava le sue creazioni più innovative e le pubblicizzava con la sua persona nei luoghi in cui si andava “per farsi vedere”. Lo stesso fece Paul Poiret, il re della Belle Époque, sposando Denise Boulet, donna di una bellezza moderna, per cui era considerata una delle signore più eleganti ed estrose di Parigi. Dopo di lui arrivarono le grandi donne della moda: Coco Chanel, Madeleine Vionnet ed Elsa Schiaparelli. La prima, Coco, cambiò le carte in tavola divenendo musa di se stessa, esemplificazione vivente della sua moda che era definita “la povertà di lusso”. Lei, con il suo taglio alla garçonne, gli abiti maschili e la cascata di gioielli falsi. In realtà anche lei ebbe bisogno di una figura ispiratrice, Misia Sert, che la introdusse negli ambienti artistici della Parigi effervescente delle avanguardie. Misia era colta, ricca ed eccentrica, tutto ciò che Coco avrebbe desiderato essere. Tutto ciò che la sua moda avrebbe dovuto rivestire.
Per Christian Dior la musa ispiratrice era Mitzah Bricard, al suo fianco sin dagli esordi e che lui definì: una di quelle rare persone di oggi la cui unica ragione di vita è l’eleganza. Una donna con l’allure di una diva e lo stile innato di un’eroina chic. Qualcuno potrebbe erroneamente immaginare una fashion-victim dei nostri giorni, ma si sbaglierebbe. In qualche modo Dior descriveva un vero, autentico dandy al femminile, in un’epoca in cui questa figura aveva ancora una possibilità di esistere.
Per Christobal Balenciaga le cose andarono un po’ diversamente: tanto fu tardivo Dior con il suo ingresso nella couture, tanto invece fu precoce Balenciaga, che si racconta ebbe la sua prima, indimenticabile musa nella marchesa Blanca Carrillo de Albornoz y Elio. La leggenda racconta che, ancora adolescente, rimase folgorato dalla sua eleganza mentre usciva da una chiesa. Audacemente le rivolse la parola, promettendole di confezionarle un abito simile a quello che indossava. Evidentemente la sua audacia era pari alla sua bravura, perché la marchesa divenne poi la sua protettrice e mecenate, oltre che prima ispiratrice di uno stile sontuoso e senza sbavature.
Un capitolo a parte merita la Marchesa Luisa Casati, musa di artisti ma anche di couturier come Fortuny, Poiret ed Ertè. Figura eccentrica ed eccessiva per eccellenza, con i suoi occhi bistrati, il viso bianchissimo e i capelli fiammeggianti, colei che a tutti i costi voleva essere un’opera d’arte.
Da queste poche figure si evince che le muse nella moda sono state sempre anticipatrici di un tempo ancora da venire. Eroine di una avanguardia difficile, a volte impossibile da capire per i loro contemporanei. Una boccata di futuro per i creatori di moda, che hanno attinto alla loro modernità per immaginare la donna che le altre donne avrebbero desiderato essere, prima ancora di saperlo.
Per Yves Saint Laurent, protagonista eccellente della moda del ‘900, nonché personalità sfaccettata, una sola musa non era sufficiente. La sua complessità fu rappresentata da due figure agli antipodi e complementari: Loulou de la Falaise e Betty Catroux. La prima il lato gioioso e solare, la frenesia della creazione in atelier, la seconda il lato oscuro del genio, notturna e destabilizzante. Entrambe indispensabili e rappresentative di una moda che poteva vestire donne così diverse, ma sempre uniche. Alla morte di Loulou de la Falaise, nel 2011, i giornali titolarono: L’ultima grande musa, intendendo in questo modo sottolineare la fine di un’epoca, di un modo di intendere la moda. Quella che finiva era l’epoca dei couturier, sostituiti prima dagli stilisti e poi dai direttori artistici; la couture sostituita dalle logiche dell’industria.
Che ne è stato delle muse?
Nel secondo dopoguerra i grandi fotografi come Irving Penn, Richard Avedon e Cecil Beaton hanno ritratto donne dalla personalità spiccata che frequentavano abitualmente ancora quell’ambiente inconfondibile dell’haute couture: Marella Caracciolo di Castagneto, Bettina Ballard, Millicent Rogers, Babe Paley, Gloria Guiness… Negli anni ’60 e ’70 iniziò l’epoca delle grandi modelle-muse, che rappresentavano perlopiù un ideale giovanile (Twiggy, Veruschka) per proseguire poi negli anni ’80 con le top-model, camaleontiche e protagoniste assolute, tanto da prevalere sugli abiti. Gli anni ’90 con il minimalismo nella moda riportarono l’attenzione sugli abiti e per un breve periodo sembrò che le muse non avessero più grande appeal. Ma l’illusione ha avuto vita breve se personaggi come Kate Moss da più di vent’anni continuano a ispirare e dirigere le fantasie dei creatori di moda. Non a caso nel 2009 il Costume Institute del Metropolitan Museum a New York ha dedicato al tema una mostra dal titolo esemplificativo: The model as Muse: Embodying Fashion.
Ma possiamo ancora parlare di muse? In realtà il termine oggi suona un poco obsoleto ed è stato sostituito da un’altra parola: icona, che sposta l’attenzione dal contenuto all’immagine pura e semplice. Ed è evidente che in un tempo come quello presente, in cui la velocità fagocita parole e gesti, cosa c’è di più immediato di un’immagine? Le icone di stile, moderne muse, invadono di preferenza i social network, si fanno immortalare dai blogger, dettano legge in fatto di moda sulle pagine delle riviste di tendenza. Per loro parlano le immagini da sole, senza bisogno di spiegazioni o esternazioni colte.
Eppure il termine musa non smette di affascinare i creatori di moda, come dimostra l’ultima campagna pubblicitaria di Marc Jacobs per Louis Vuitton, in cui Steven Meisel immortala sei muse contemporanee, attingendo a personaggi “storici” come Catherine Deneuve, classici come Sofia Coppola e infine più moderni come le modelle Edie Cambell e Caroline Maigret.
Forse qualcuna delle Muse sopravvive, lontana dai riflettori, presente negli atelier dell’alta moda, che incredibilmente resiste ancora in questi tempi di fast and furious. Ma si sa, la vera bellezza è spesso talmente lontana dai luoghi comuni da risultare ostica. E, come in passato, le muse sono ancora quell’avanguardia che necessita di un tempo lungo per essere compresa, troppo lungo. Oggi più di ieri.
Bello.
The man I wish, still again. Unforgettable, unrepeatable.
Lasciate che io mi crogioli un po’ nella malinconia in questi giorni di fuffa e fashion. No, l’abito non fa il monaco, se dentro c’è solo fiato.
Ma l’abito è una conseguenza.