La migliore sarta del mondo e il viaggiatore.

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Madeleine Vionnet

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Bruce Chatwin

Bello.

Molti si chiederanno cosa abbia a che fare Vionnet con Chatwin, considerando la distanza dei rispettivi interessi, eppure un legame c’è. Bruce Chatwin realizzò una delle rare e più belle interviste alla grande couturier e si può dire che per entrambi stranamente quell’esperienza è legata ad  un definitivo commiato. Chatwin sarebbe morto dopo pochi mesi dalla pubblicazione del libro che la conteneva (Che ci faccio qui?), mentre per  Vionnet si trattò probabilmente della sua ultima intervista. Lei sarebbe morta meno di tre anni dopo averla rilasciata.

Era il 1973, Madeleine Vionnet all’epoca aveva 96 anni, Chatwin stava lavorando per Vogue America come inviato, possiamo dedurre che l’imput gli fu fornito direttamente da Diana Vreeland.

Vionnet aveva abbandonate le scena della haute couture nel 1939, esattamente allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Non aveva più realizzato vestiti da allora, questo non le aveva però impedito di occuparsi ancora di moda, a modo suo, come sempre aveva fatto nella sua carriera.

La migliore sarta del mondo, come lei stessa, giustamente, si definiva, riuscì ad affascinare un viaggiatore incallito come Chatwin. Lei, testimone sopravvissuta di un tempo che non c’era più, attraverso ricordi lucidi e sintetici rivelò all’attento osservatore una personalità totalmente fuori dal comune.

Abbaglianti le ultime battute dell’intervista:

Al momento di lasciarla mi  inquietava il pensiero che il nostro fotografo potesse disturbare la sua tranquillità.  “No, non mi disturberà. Sarò molto contenta di vederlo. Ma non può fotografarmi il cervello…!”.

Delitti e misfatti in nome della moda.

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Bello.

E’ un piccolo libro di 57 pagine (si infila senza problemi anche in una clutch di dimensioni minime), con una pink-copertina, una grafica accattivante e un titolo azzeccatissimo. Ma soprattutto si legge tutto d’un fiato, regalando numerosi sorrisi, che servono sempre.

Fashion Horror Show (ed. Il leone verde) è scritto da due sorelle che si occupano di moda, lifestyle e molto altro: Giulia e Maurizia Pennaroli (www.torinostyle.blogspot.it). Il libro parla la lingua dell’anti-moda, proprio come piace a me: elenca gli errori e i delitti estetici fatti in nome di una concezione modaiola un po’ superficiale.

Diciamo la verità, nessuna di noi è immune da questo tipo di crimine e infatti non si fa fatica a riconoscersi, almeno un po’, in una (o più di una) delle categorie di “tipi” presi in considerazione (personalmente ho fatto un mea culpa al capitolo che riguarda “la ragazza di cinquant’anni”..).

Una sezione a parte prende in considerazione poi i capi più incriminati del guardaroba, quelli che in un guardaroba almeno decente proprio non dovrebbero entrare. E infine l’ultimo capitolo è dedicato agli evergreen, con cui è davvero difficile sbagliare, elenco che potremmo definire di pronto soccorso per le più imbranate o per i momenti di totale amnesia stilistica.

Insomma Fashion Horror Show non ha la pretesa di insegnarvi a diventare donne di stile (quello non ve lo insegnerà nessuno!), però vi indicherà la strada dell’ironia e soprattutto dell’auto-ironia mentre vi guardate allo specchio prima di uscire, che è poi l’unico accessorio che non passa mai davvero di moda.

Le Muse sono tra noi.

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Bello.

Tempo fa ho partecipato con molto piacere a un progetto di Mario Vespasiani sul tema delle Muse nell’arte, ma con un ampio respiro che comprende la musica, la letteratura e anche la moda. Il mio apporto era una riflessione su di un tema che mi ha sempre affascinato e incuriosito e che è poi stata inserita in questo bel volume di fotografie realizzate dall’artista.  Foto che ritraggono la sua musa: Mara.

Si potrebbe dire che Mara è per Mario un doppio, tanto ben riuscito al punto che io riesco a percepire persino una sorta di somiglianza fisica tra di loro. Mara è la parte femminile che completa l’unità ideale verso cui tendere, molto più di un’ispirazione.

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Il libro indaga, attraverso le immagini, tutte in bianco/nero, le innumerevoli sfaccettature di una Musa, che misteriosamente è in grado di apparire sempre diversa pur rimanendo fedele a se stessa.  L’artista sperimenta attraverso la sua Musa un’alterità che solo a tratti si fa avvicinare. E questo eterno rito di avvicinamento e allontanamento risulta infine la parte affascinante del processo. Mutevole e quindi sempre nuovo.

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Ringrazio Mario Vespasiani, che con fiducia ha messo a nudo un percorso personale e suggestivo, regalandoci immagini sincere, profondamente intime.

Tutto quello che non so.

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Bello.

 

 

“Buonasera Sig.ra Delfino.

Leggo spesso il suo blog, e mi rattristo quando non lo aggiorna mantenendo una certa regolarità. Non condivido tutto quello che scrive, ma ne apprezzo molto spirito critico e argomentazioni.

Sono una ragazza di 22 anni con tre anni di studi economici alle spalle, ma con un’indole troppo portata per la moda per restare tra meri numeri. Scrivo per un magazine, di arte, costume e spesso moda. Mi piace leggere di quest’ultima, parlarne, approfondirla, ma comprendo che per scriverne è necessario un certo bagaglio di conoscenze. Le scrivo per chiederle quindi un consiglio, quali letture mi consiglia per iniziare ad arricchire la mia cultura in fatto di moda?

Ciò che più bramo di imparare è l’evoluzione della moda e del suo concetto. Voglio acquisire gli strumenti per poter elaborare un giudizio critico che vada oltre il mio gusto personale. Voglio capire, interiorizzare come distinguere le sottili genialità che taluni stilisti sanno partorire.

Se potesse aiutarmi Le sarei molto grata. E per favore, posti di piu’.

S.

Ps. Sarei inoltre curiosa di sapere quale sia il suo pensiero sul fatto che molti critici abbiano criticato i designers italiani durante l’appena passata fashion week, affermando che questi abbiano mancato di originalità.”

 

Questa è una mail che ho ricevuto la scorsa settimana. Ho deciso di pubblicarla (dietro consenso della mittente) per rispondere anche a numerosi altri messaggi che mi chiedevano consigli simili.

La premessa che mi sento di fare è che io non credo di essere la persona più qualificata per dare consigli in merito, essendo io stessa una quasi autodidatta. Quindi non aspettatevi da me una sfilza di titoli e riferimenti colti.  Posso solo raccontare il mio metodo, per quello che vale.

Il metodo è semplicissimo: assaggiare tutto e farsi guidare dall’istinto.

Certo, ci sono tomi che uno studioso del costume deve necessariamente aver letto (vedi quelli di Roland Barthes..), ma io non sono mai stata così categorica e a dire la verità quei tomi mi hanno sempre annoiata a morte, anche se mi sarei sentita troppo in colpa se li avessi ignorati.

Negli anni ho saltellato incoerentemente tra testi di semantica, biografie, critica, storia, gossip, illustrazioni..

Ho sempre pensato che per farsi un’opinione fosse necessario ascoltare le voci di più gente possibile e che non esista una cultura alta, tanto quanto non ne esiste una bassa. La cultura per me è un insieme di esperienze, non solo intellettive.

In definitiva io ho sempre frequentato molto le biblioteche e letto tutto ciò che potevo. Poi ho acquistato quei libri di cui mi sembrava non potessi fare a meno.

Un titolo tra tutti, che uso frequentemente per le mie lezioni?  Storia della moda XVIII-XX secolo di Enrica Morini.

Un altro piccolo consiglio è quello di leggere assolutamente le autobiografie e gli scritti dei padri e le madri della moda. Sentire raccontare dalla loro voce l’evoluzione e i cambiamenti della moda vale più di innumerevoli testi di critica o storia. Non ce ne sono molte (Dior, Poiret, Schiaparelli, Ferrè..), ma ognuna è imperdibile.

Non ho altri consigli, spero che altri facciano meglio di me.  Per quanto riguarda il postare di piu’.  Vorrei tanto, ma il tempo che mi rimane dopo aver seguito i figli,  progettato, cucito, insegnato, letto.. è talmente poco.  Questa del blog rimane un’attività che faccio, come si suol dire  “a tempo perso”, e mi stupisco ancora e sempre quando mi arrivano mail come questa, che mi restituiscono invece la sensazione di non aver perso il mio tempo.

Rispondo all’ultima domanda, riguardo alla critica di scarsa originalità della moda italiana durante l’ultima fashion week.   Ma quando mai la moda italiana ha brillato per originalità?

Si è sempre detto che il made in Italy è campione nelle vendite perché è in grado di accontentare il mercato, che siamo insuperabili in qualità e vestibilità, insomma l’originalità non è mai stata il nostro cavallo di battaglia. Allora qual è il punto?

Forse che certo giornalismo di moda ha scoperto che la critica tout court va tanto di moda?

 

 

 

 

I tempi sono maturi. Le donne pure.

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Bello.

Quella che vedete è la copertina di un iBook appena pubblicato che si occupa di una fetta di popolazione femminile mondiale tutt’altro che trascurabile e decisamente influente: le over 60.

Patrizia Molechino è l’autrice, mentre le foto sono di Alessia Barucchi.  Patrizia vanta una lunga esperienza nel settore della moda: ha lavorato come pr da Krizia, è stata assistente personale da Valentino Couture, e dal 2009 è presente in rete con il suo blog: http://www.patrizia-molechino.360fashion.net

La tesi del libro, che condivido, è che bellezza ed eleganza non debbano più essere vincolate a un semplice dato anagrafico e che addirittura sia possibile, per le signore, concedersi una libertà ben maggiore riguardo allo stile personale, rispetto alle figlie o nipoti.

A ben vedere diventa sempre più difficile catalogare abiti e accessori distinguendoli per fasce di età a cui sono destinati e non si tratta semplicisticamente di signore che vogliono sembrare giovani a tutti i costi. Si tratta piuttosto di stili di vita che sono radicalmente cambiati nel giro di un decennio o poco più.

Le signore navigano in rete e conoscono bene le potenzialità dei social network, viaggiano spesso, da sole o in compagnia, sono impegnate nel lavoro più che in passato, non avendo nemmeno più figli ancora piccoli da seguire. Hanno davanti un guardaroba variegato e ne approfittano, senza sensi di colpa, finalmente, e con una buona dose di libertà.

Guardando le immagini del libro scopriamo poi che le signore in questione sfoderano anche una sicurezza tale da consentir loro di adottare stili originali, qualche volta eccentrici, sicuramente non banali. Quello che salta agli occhi è anche un’idea di bellezza non classificabile, lontana dagli stereotipi: è probabile che l’esperienza abbia fatto fuori un buon numero di cliché, oltre ad affinare il gusto. Come dire che il passare del tempo infine qualche vantaggio ce l’ha!

Il libro, in lingua inglese, è disponibile attualmente su Mac e i-pad, ma l’intenzione dell’editore è quella di estenderlo su altre piattaforme e tradurlo in altre lingue.

Inoltre il libro verrà aggiornato periodicamente con le foto delle lettrici che avranno voglia di sottoporre il proprio look; una buona occasione per far uscire allo scoperto un serbatoio di bellezza ancora poco esplorato.

 

 

 

Una piccola favola nel bosco d’inverno.

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Bello?

Si dice spesso che la moda è sogno. Potrebbe essere anche favola?  Mi è tornata in mente questa storia che avevo dedicato a mio figlio, per avvicinarlo al lavoro che faccio, ma anche per accarezzare ancora una volta la parte di me bambina.  Si inizia giocando con le bambole, poi giochiamo a travestirci e infine proviamo a immaginare storie che possano essere indossate da altre persone.

Per non dimenticare quanta parte di gioco e leggerezza ci sia (ancora) in questo mestiere.  Lontano dai palcoscenici, dagli articoli un po’ spocchiosi e  dalla pazza folla.

 

(*) Tutte le foto sono di Stefania Bonatelli.

Elsa in the wind.

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11 - 1938

Bello.

Negli ultimi anni i riferimenti a Elsa Schiaparelli si sono fatti via via più numerosi e insistenti. Complice anche la più volte annunciata riesumazione del marchio, ma non solo. Evidentemente l’accostamento, anche solo di sfuggita, con un nome così pieno di carisma e contenuti, fa gola a molti. E si sa, gli avvoltoi sono sempre pronti quando c’è un boccone in vista..

Di quel disgraziato abbinamento o conversazione impossibile con Prada ho già parlato. Pure ho già scritto di quel tentativo mal riuscito di rispolverare qualche reminiscenza, complice un Lacroix non proprio in forma.  Le ultime notizie sono di uno Zanini all’opera per tentare una mission (possible?) quantomai ardua.

Tutti questi scivoloni o fallimenti mi fanno immaginare che ci sia un elemento clamorosamente mancante in queste storie: la conoscenza.  Siamo davvero sicuri che tutti coloro che si occupano di un sistema così fluttuante come quello della moda abbiano concreta conoscenza di ciò che vanno a trattare? In fondo Elsa Schiaparelli rimane uno dei nomi della storia della moda meno conosciuti, se non per due o tre cose che passano di bocca in bocca. Eppure è una tra i pochi ad aver scritto persino una autobiografia.

Tra l’altro è una lettura che consiglio a chiunque, perché non parla solo di moda, ma svela alcuni dei lati più intimi di una donna che ha vissuto intensamente il suo tempo.

La moda della Schiap rimane legata alla sua persona e al suo modo di concepirla, ma anche al suo tempo, che la mise di fronte a scelte non facili. E’ possibile dire che lei fu la prima a regalare alle donne la consapevolezza che con gli abiti potevano finalmente mostrare una personalità, che i loro corpi parlavano un linguaggio più articolato della semplice appartenenza di genere. Essere donne pensanti non era affatto scontato negli anni ’30:

Ho sempre invidiato (agli uomini) il fatto di poter uscire da soli a qualunque ora. Vagare senza meta per tutta la notte o stare seduti in un caffè senza far nulla sono privilegi che possono sembrare di nessuna importanza, ma che in realtà danno alla vita un sapore molto più intenso e sofisticato.

Se Chanel e Vionnet avevano liberato il corpo e i tessuti, lei fece un ulteriore passo in avanti e mise mano alla liberazione del significato di un abito, della sua interazione con la sfera dei sogni, dell’inconscio. Per fare questo si servì dell’arte, ma in un modo che è ben lontano da molti degli esperimenti (più che altro commerciali) attuali.

La Schiaparelli ragionava come un’artista, pur consapevole che quegli abiti erano comunque destinati a vestire il quotidiano. Un’alchimia che ha dell’incredibile, forse possibile allora anche grazie ad un momento storico irripetibile, forse, semplicemente, il frutto di una mente e di una creatività al di fuori da ogni schema. Tanto superiore da permetterle di capire anche quando lasciare:

Quando il vento ti prende il cappello e te lo porta via, sfidandoti a inseguirlo sempre più lontano, tu devi correre più veloce del vento se vuoi recuperarlo. Capii allora che per costruire con maggiore solidità, a volte si è costretti a distruggere. Che bisogna imparare a parlare la lingua di chi non capisce la differenza tra carne da macello e carne umana..

Pensando a tutto questo, mi accorsi che si era chiuso un cerchio e che non potevo proseguire per la stessa strada senza diventare una schiava; che dovevo allontanarmi da Place Vendome, alle cui tiranniche esigenze ero ormai soggiogata, e che avevo bisogno di un cambiamento radicale.

Una lezione imperdibile per tutti quelli che si avvicinano o che sono già da tempo alle prese con la moda. Prima ancora di accostarsi a questo nome, prima di riempirsi la bocca con nomi che finiscono con il rappresentare solo la smania di rubare qua e là briciole di storia.

Una lezione che non ammette i protagonismi dei personaggi, bensì il coraggio delle persone.

Oui, je suis Inès!

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Brutto.

Inès de la Fressange è un mito: riesce a parlare di niente con una leggerezza davvero charmante..

Racconta che all’ultima fashion week parigina è andata solo alla sfilata di Chanel perché le scenografie create da Lagerfeld sono imperdibili! Dice che l’età è un’attitudine, non un numero. Ci tiene a precisare che è molto indaffarata per la retrospettiva su Roger Vivier. Enfin!

Ma credo che il suo meglio l’abbia dato nella stesura di uno dei libri più inutilmente celebrati della storia della moda: “La Parisienne”.

La Parigina in questione naturalmente è lei, ça va s’en dire, monumento vivente di un classico cliché.  Il libro è la rivisitazione di tutti i luoghi comuni riferiti al vestire e all’apparire in società. Terribilmente scontato, oltre che, a mio avviso, datato, un po’ come la Parigi da cartolina.

A volte la distanza tra l’essere chic e l’essere banali può essere molto breve.

Parole in soffitta: eleganza.

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Bello?

Elegance is a discipline of life. Oscar de la Renta.

La prima immagine che mi è venuta in mente pensando alla parola eleganza è Tilda Swinton nel film ‘Io sono l’amore’: atemporale, apparentemente distante. Nel film l’attrice indossa la maschera del perbenismo, che le si incolla addosso, fino al punto che quando tenta di strapparsela è condannata all’autodistruzione.

Poi mi sono ricordata che nel mio laboratorio/atelier tra i vari ritagli e foto c’è una scritta che dice: il lusso costa meno dell’eleganza.

Mi sono tornati in mente questi particolari leggendo un articolo su La Repubblica di alcuni giorni fa, per l’uscita di un libro – L’élegance – scritto da Nathalie Rykiel, figlia della più nota Sonia.  La designer/scrittrice tenta, in qualche modo, di salvare una parola e un’attitudine che lei stessa non fa fatica a definire obsoleta e vetusta.  E’ un fatto che quando pensiamo a persone eleganti immancabilmente ci riferiamo a personaggi del passato: attrici, uomini di mondo, intellettuali..

Eleganza è stata sostituita da stile, che è un termine realmente fuori dal tempo, che non ha bisogno di riferirsi a un’etichetta, a regole vessatorie: passare inosservati è il massimo dell’eleganza, diceva Lord Brummel. Impensabile di questi tempi.  Ma non solo oggi: giorni fa guardavo un documentario su Diana Vreeland che era solita mettere un po’ di rossetto sui lobi delle orecchie e che affermava che lo stile necessitava di qualcosa di difforme, addirittura volgare.

Persino Gianni Agnelli, portato da molti come esempio di eleganza, non era certo immune da evidenti cafonate: come altro si può definire quel vezzo fin troppo celebrato di portare l’orologio sul polsino?

Quindi la tesi che la morte dell’eleganza sia un fatto di stretta attualità mi sembra infondata. Direi piuttosto che vista da un certo punto di vista – ossia da puristi – la parola corrisponde a una gabbia: immobile, noiosa e tutt’altro che soggettiva. Mentre al contrario il termine stile corrisponde a un significato difficile da definire, proprio perché arbitrario. Ci sono esempi infiniti di stile, mentre l’eleganza ha canoni precisi: niente di appariscente, pochi colori, fantasie minime, poco trucco, pochi gioielli. Insomma poco di tutto.  Viene il dubbio che per essere eleganti si debba ricorrere ad una sorta di ortodossia dell’apparire.

Mi chiedo se ha ancora un senso oggi usare questa parola. Definire una persona ‘elegante’ non è un po’ come tentare di salvare una specie in via di estinzione?  Se si sta estinguendo forse un motivo deve esserci.. La teoria dell’evoluzione prevede una selezione naturale e se l’eleganza non ha gli anticorpi per sopravvivere al tempo, credo sia più saggio riporla negli armadi sotto naftalina.

O lasciarla nei musei.

Be stupid.

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Bello?

Dopo un paio di anni dalla sua uscita ho finalmente trovato un pò di tempo per leggermi il libro di Renzo Rosso Be stupid . for successful living.  Diciamo subito che si legge in mezza giornata -un giorno al massimo-.  E’ un pò il resoconto del suo percorso professionale e creativo visto attraverso la lente di quella che è stata la sua campagna pubblicitaria più famosa.

L’alter ego di Rosso è Guido Corbetta che analizza ogni capitolo cercando di trarre una sorta di sintetico insegnamento da ogni tappa della storia di Diesel.

Proprio gli interventi di Corbetta, insieme alle lettere degli amici sono la parte più stucchevole del libro.  Quello che non mi piace di Rosso è questa tendenza ad atteggiarsi a guru, così come in generale non mi piacciono tutte le cosiddette tribù. Ancor meno quando il tutto nasce da un fenomeno pur sempre commerciale..  Renzo Rosso è senza dubbio un bravo imprenditore, un uomo lungimirante e coraggioso a modo suo, ma il fine ultimo di tutto il suo lavoro è comunque quello di vendere abbigliamento.  Quando dice, tra le righe, che preferisce non pubblicizzare i suoi interventi di beneficenza e poi spiega esattamente quali sono e lo scrive nero su bianco, beh, trovo che ci sia almeno una contraddizione.

Scrivere un libro per raccontare la propria filosofia di vita collegata alla produzione di jeans, quando la stessa filosofia è già stata ampiamente veicolata da una lunga campagna pubblicitaria..  Che senso ha?  Forse il tentativo di santificare il tutto?

Trovo che uno stupido, come si autodefinisce Rosso, dovrebbe possedere una qualità, prima di tutte le altre, imprescindibile: quella di non prendersi troppo sul serio.