Brutto.
Perchè Margiela mi sembra tanto Prada..?
.. E Balenciaga mi sembra tanto Margiela? [E non mi riferisco a similitudini da passerella].
Brutto.
Prada, come già altri, si accoda alla nuova onda dei prontisti e annuncia che la sua collezione di borse sarà in vendita subito dopo la sfilata. Ma dirlo così, semplicemente, non sembra fare il giusto effetto.
Allora la macchina da guerra della comunicazione più all’avanguardia si mette all’opera per coniare questa perla di slogan: See Now Buy Now.
Altri tempi quando Madeleine Vionnet (era il 1924!) con i suoi abiti in sbieco, perfetti per vestire più taglie, a parte l’orlo che veniva sistemato mentre la cliente sorseggiava un tè, creava la collezione Made While You Wait.
La collezione era per il mercato americano e lei fu tra le prime ad aprire una boutique a New York e certamente con quella collezione fu la prima a sperimentare qualcosa che molti anni dopo si sarebbe chiamato pret-à-porter. Quel titolo, quelle parole significavano una presa di posizione in fatto di innovazione, proposta, novità e conseguente rischio. Oggi le parole nella moda mi sembrano svuotate di tutto questo, sono spesso utili per riempire vuoti di idee. Sono buone per spacciare per sostanza ciò che è solo apparenza.
Altri tempi quelli di Vionnet, ma soprattutto un altro uso del linguaggio, che seguiva i fatti, concreti, sostanziosi, e non viceversa.
Brutto.
Prada, pre collezione autunno-inverno 2016/17.
Non è certo la prima volta, già nel 2007 aveva mandato in passerella modelle in mutande e per rinforzare la presa di posizione nel 2012 dichiarava: “La mutanda è un oggetto che mi piace moltissimo”.
Non è quindi con stupore che mi accingo ad osservare questa collezione, che mi lascia moderatamente indifferente e quindi mi soffermo sulla parte inferiore degli outfit che mi appare immediatamente come il tentativo della stilista. mai sazio, di apparire contro-corrente.
Una boutade, un gesto puerile, un infantile vezzo; perdonabile difetto. Ma attenzione, perché contro-corrente si può solo esserlo.
Lo sforzo di sembrare vanifica i risultati, lascia trapelare una inadeguatezza, una posa che è poco meno che spocchiosa.
Posso immaginare che da quando i leggings popolano e spopolano sulle nostre strade, fregandosene del buon gusto o giù di lì, portarli in passerella sembrerebbe superfluo. E’ perciò opportuno andare oltre: la calzamaglia quindi.
E qui vai a tirare in ballo ispirazioni forse medioevali, sicuramente secentesche (!), perché non esiste di immaginare altro che non sia squisitamente intellettuale.
Il gioco della moda è anche questo: far brillare ciò che altrimenti sembrerebbe insignificante.
http://video.d.repubblica.it/moda/miuccia-prada-il-mio-mondo-libero/3969/4106?ref=fbpd
Brutto?
Resto dell’idea che un’opera d’arte o di creatività, che sia espressamente visiva, se spiegata da chi l’ha ideata, perde di forza. Tanto varrebbe allora non realizzarla e pubblicare piuttosto un trattato sull’intenzione, un racconto sulla visione di qualcosa che è solo nell’immaginazione. Quello che di solito fanno gli scrittori e che è appunto il mestiere di scrivere.
Sarò sincera, a leggere l’intervista a Miuccia Prada mi sono annoiata, e ancora di più ad ascoltare dalla sua viva voce il racconto della sua vita tutt’altro che appassionante. Al di là dei gusti personali, trovo comunque più interessante guardare i suoi abiti.
Quale epopea potrà mai suggerire il percorso di una borghese benestante il cui massimo atto di coraggio è stato quello di frequentare in età giovanile i circoli di sinistra? Credo che dovremmo tutti darci un taglio sull’interpretazione dei termini: coraggio è un’altra cosa.
Un altro termine che ricorre insistentemente nei discorsi di Prada è intellettuale e anche qui noto che l’interpretazione è soggettiva. Ma non posso evitare di sorridere ogni volta che il fare moda in un contesto commerciale è abbinato a questo termine.
Poi c’è la parola che più di tutte ultimamente merita il podio: borghesia. A quanto pare ci si è dimenticati davvero da dove arrivi questa classe sociale. Napoleone Bonaparte fece di tutto per far si che la colta aristocrazia infondesse un minimo di buon gusto in quei parvenu che si erano arricchiti dall’oggi al domani con traffici e speculazioni durante e dopo la rivoluzione francese. Diciamo pure che borghese non era proprio sinonimo di raffinato. Poi la storia ha fatto il suo corso e dal cinema abbiamo altri rimandi: mi vengono in mente titoli come Un borghese piccolo piccolo o Il fascino discreto della borghesia, e anche in questi casi il termine non ne esce bene.
Però c’è insistentemente qualcuno che vuol farci credere che invece no, che questa attitudine borghese è ormai il massimo di quel portamento cool diventato obbligatorio negli ambienti giusti.
E poi c’è la questione del brutto che Prada si vanta di aver sdoganato nell’unico ambiente in cui ancora non era stato fatto: la moda. E c’è da chiedersi perché non fosse stato fatto? Conoscete qualcuno il cui desiderio sia quello di comprare abiti brutti?
Qui non si tratta di perorare necessariamente la causa della moda sexy o pretty, quanto piuttosto di considerare che quando si vestono, le persone tendono naturalmente a voler migliorare il loro aspetto fisico. A prescindere dal fatto che poi ci riescano o meno.
D’altra parte penso che Prada abbia piuttosto imparato alla lettera la lezione di Diana Vreeland, quando diceva di aggiungere un tocco kitsch al suo stile per dare più forza a tutto il resto. Tutto qui.
Insomma, io non mi sforzerei, come fanno in troppi, a vivisezionare queste perle di understatement, che a furia di essere analizzate, stanno diventando quello che non vorrebbero mai essere: dei puri e semplici clichè. Alla faccia di chi afferma che la signora ha sbaragliato tutti i cliché.
Bello?
E’ innegabile che durante le ultime sfilate milanesi si stiano palesando due scuole di pensiero, o macro-tendenze, o meglio due rette parallele che temo non si incontreranno mai.
Una è quella che ho battezzato come fattore Prada, e l’altra si potrebbe definire scuola Valentino. Ecco, di questo secondo gruppo fa parte l’ultima collezione di Alberta Ferretti per l’autunno inverno 2015-16.
Sono le due tendenze che sembra stiano risultando più convincenti sia sul piano mediatico che su quello commerciale. Mentre nel primo gruppo la ricerca è tutta concentrata sull’imperfezione chic (grazie ad Arianna per la definizione!) e sui risvolti concettuali dello straniamento che ne consegue, nel secondo gruppo la ricerca si sposta su un piano prettamente artigianale. La donna-tipo è un’ancella irraggiungibile e non a caso i riferimenti sono spesso rivolti a un passato molto lontano e classico: il Rinascimento, i pittori fiamminghi, i pre-raffaelliti..
Inutile dire che entrambi i gruppi alla lunga mostrano i loro limiti (e a giudicare dall’ultima sfilata, persino Miuccia sembra essersene accorta), e poiché a me piacciono invece i cani sciolti, resto collegata, in attesa di scorgerne e poterli apprezzare.
Brutto?
La collezione donna autunno inverno 2015-16 di Gucci disegnata da Alessandro Michele è il proseguimento ideale di quella maschile presentata a gennaio, e di cui ho già scritto.
Evidentemente il successo della linea maschile deve essere stato talmente eclatante da convincere lo stilista (e la proprietà del marchio soprattutto) a ripetere l’esperimento. Oppure dietro a tutto questo c’è una strategia che io chiamo fattore Prada.
Guardando la sfilata, non è difficile intuire a cosa mi riferisco: si tratta di quel tanto di spiazzante, disarmonico, disturbante che a conti fatti cattura l’attenzione e lascia immaginare una insostenibile profondità di intenti. E aggiungo che non mi scomoderei a citare fantomatiche terre di mezzo, piuttosto che le visioni contemporanee che più contemporanee non si può. E nemmeno quel gran precursore di Roland Barthes. Basterebbe, senza andare troppo lontano, ricordare passate collezioni di Kristina Ti..
Se poi tutto ciò si tramuti in vendite, non saprei dirlo. Provo ad immaginare la cliente-tipo di Gucci vecchia maniera di fronte a quegli outfit, che un po’ rimandano ai mercatini delle pulci, un po’ alle accozzaglie di certe adolescenti post-radical.
Se addosso alle ragazzine che sfilano in passerella l’effetto è giustamente credibile, non giurerei altrettanto per la cliente-tipo di cui sopra.
Ma confesso che le strategie di mercato di un grande marchio sfruttano logiche per me ostiche e quindi ignote. E perciò sospendo cautamente il giudizio e mi fermo ad osservare.
Brutto?
Prendendo spunto dalle sfilate della moda uomo di questo periodo, un amico si lamentava di quanta poca varietà ci fosse nel guardaroba maschile rispetto a quello femminile. In realtà gli facevo notare che, a guardare bene quello che viene proposto sulle passerelle, spunti per spezzare la monotonia ce ne sarebbero..
E’ pur vero però che sono pochi gli uomini che osano, a parte i vari dandy veri o fasulli, gli addetti ai lavori e qualche spirito libero. La massa degli acquirenti di moda maschile tende ad andare sul sicuro con tinte sobrie, possibilmente neutre e uno stile che spazia dal classico allo sportivo con qualche concessione al casual.
Non è stato sempre così: nel ‘600 era la moda maschile che riceveva l’attenzione maggiore, con guarnizioni, decorazioni e ricami preziosissimi, gioielli a profusione e tessuti sontuosi. Le testimonianze sono ben visibili nei dipinti dell’epoca, che ritraggono re e aristocratici “iper-addobbati”. Non fu da meno il 1700, secolo in cui i canoni di bellezza esigevano la vita sottile sia per le donne che per gli uomini e quindi l’uso del corsetto in entrambi i casi. Sia uomini che donne poi a corte indossavano parrucche incipriare, un trucco pesante e abiti coperti di ricami coloratissimi, maniche di impalpabile pizzo, calze di seta e scarpine col tacco. Insomma non proprio un abbigliamento sobrio, e tutt’altro che noioso.
Il cambio di rotta avvenne a partire dalla fine del ‘700 e ancora di più nel 1800, subito dopo le due grandi rivoluzioni: quella francese e quella industriale.
E’ allora che ha origine quella che fu chiamata la grande rinuncia alla moda da parte degli uomini, con l’adozione del completo in tre pezzi: giacca/gilet/pantalone. Il perfetto abito borghese.
Improvvisamente, per l’uomo borghese, tutto dedito ad accumulare capitali, la moda divenne materia poco seria, tanto da lasciarne totalmente la gestione all’universo femminile:
“Le donne di mondo vivono una vita da martiri. Per provare a valorizzare le toilettes di fata che le couturières si uccidono ad imbastire dalla sera al mattino, fanno la spola da un vestito all’altro, per ore affidano la loro testa vuota agli artisti del capello (..). Imbustate nei loro corsetti, strette nei loro stivaletti, esse volteggiano per notti intere nei loro balli di beneficienza..”.
Ecco, la descrizione poco lusinghiera di un cronista dell’epoca. Nel frattempo gli uomini si aggiravano, come tanti becchini, indossando completi scuri, cilindro e bastone da passeggio. Si salvavano (si fa per dire, vista la fine di Wilde) i pochi dandy in circolazione.
Possiamo ben dire quindi che ancora oggi gli uomini scontano un paio di secoli di ignoranza in fatto di moda.
Colpa dell’uomo borghese quindi, che ha preposto la funzionalità alla fantasia, che ha altresì relegato la moda nell’ambito della superficialità, negandole di fatto il ruolo sociale e culturale, che ancora oggi facciamo fatica a restituirle.
Bello?
A quanto pare un guasto tecnico ha costretto al silenzio l’ultima sfilata SS 2014 di Marni. Sembra che il disguido si sia trasformato in un valore aggiunto, regalando spessore a un’esibizione fin troppo scontata. Questa ultima collezione risente non poco di echi facilmente riconoscibili: noto con stupore e anche sconcerto alcune similitudini con le atmosfere di Prada e dintorni..
Non si tratta in ogni caso di una delle migliori collezioni del marchio. Sembra ci sia un abisso tra alcuni abiti così sciolti e fluidi ed altri che si impongono per il massimalismo tronfio. Come se contemporaneamente due mani estranee una all’altra avessero lavorato separatamente. La colpa non è solo di quelle visiere, o di quei sandali che ormai sono il tormentone di molte, troppe sfilate. Ma insomma, anche questo certo non aiuta..
Ma il silenzio, vorrei tornare a questo spunto, da cui sono partita. Difficile non pensare al silenzio puro e perentorio delle sfilate di Cristobal Balenciaga. Un silenzio che era una presa di posizione e una dichiarazione di intenti. Ci vuole un bel coraggio e una incrollabile fiducia in se stessi per pensare che una musica e uno spettacolo non possano aggiungere né togliere nulla al proprio lavoro. E infatti nessuno, a parte lui, sembra sia dell’idea.
Però non credo che la rarità del silenzio sia un fatto prettamente contemporaneo. In fondo l’umanità non è fatta per tacere o muoversi con parsimonia di suoni. Anche se poi qualsiasi rumore o suono perdono di senso in assenza del silenzio. Anche la moda che vive così spesso di musiche e clamore, di molte parole inutili e frastuono di sottofondo, diventa rarefatta quelle rare volte che si muove nel silenzio.
Provate a togliere l’audio ad una sfilata per accorgervene. Peccato che non sia stata una scelta, ma solo una botta di fortuna..
Brutto.
Collezione Miu Miu SS 2014. Quell’elemento dissonante che Miuccia Prada adora inserire nelle sue collezioni, qui deve averle preso la mano. Lei dichiara spavaldamente che non ama fare dei bei vestiti, e non c’è rischio che si provi a smentirla. Questa collezione dichiara al mondo che per essere in sintonia con quella moda ideologica, intellettual-snob che è il vessillo della corte della signora Prada, bisogna avere il coraggio di mettersi addosso abiti che nulla c’entrano con le stagioni e con una ormai vetusta idea di eleganza.
La collezione rispolvera gli anni ’70, tanto cari alla stilista, ma da un punto di vista effettivamente abbastanza inusuale. La ragazza che scende in passerella fa il verso alla bambina di quegli anni: accollata, leccatina e terribilmente antipatica. E certo non bastano quegli improvvisi sprazzi di colore spiazzante per rendercela un poco più accettabile.. Il risultato è un po’ sclerotico, come se troppo perbenismo le avesse dato alla testa.
Quando poi la ragazza in questione si acconcia per la serata, sceglie abiti un poco più scollati, ma talmente rigidi da far dimenticare qualsiasi idea di leggerezza. Aleggia su tutta la collezione questa idea di formalismo violato, ma mai fino in fondo, come a voler sottendere, che in fondo (ma proprio in fondo) quell’interno borghese non è tanto male. Purchè si faccia parte del clan. Of course.