Bello.
Benvenuta Primavera
con piccoli germogli preziosi come oro
e roselline di un tenero rosa.
Benvenuta luce dei giorni lunghi
e benvenuti ai vestiti che sfiorano le caviglie
gonfiandosi ad ogni passo.
Bello.
Rappel a l’ordre, si intitola così la prima collezione di Giorgina Siviero per San Carlo dal 1973, Torino. Stesso titolo per il video realizzato da MIST (Eleonora Manca e Alessandro Amaducci), nato per raccontare le origini, gli intenti e il clima del progetto.
Avevo già lavorato in passato con MIST (qui e qui) e sono stata felice di coinvolgerli in questo progetto. Il video è un racconto per immagini e parole di quello che avviene prima. Prima della sfilata, che di solito è considerata il centro e l’apice del progetto. Ma non è così: ci sono momenti decisamente più significativi, ci sono gesti e passaggi che richiedono un’attenzione e una cura estreme. Il lavoro che c’è dietro una collezione è la vera anima della stessa.
Per questo video e per la sfilata ho curato i testi, che sono nati come uno dei lavori di sartoria che compio abitualmente: cuciti sulle immagini, pensati come vestiti su misura.
Il video cattura un’atmosfera, fissa per immagini quella zona di poesia che si trova a frequentare chi entra in una sartoria o un atelier. La magia delle piccole cose che realizzano qualche sogno.
Il video:
http://www.refinery29.com/2016/07/115869/iris-van-herpen-fw16-visionaire-video
Bello.
Iris Van Herpen dimostra come il futuro è fatto ancora di mani che si muovono, pensano e creano. E che senza quelle mani, tutta questa magia di visione, tecnica e inventiva non sarebbe possibile.
(ph. Maren Ollmann). Coll. Air, Adriana Delfino
Bello?
Parlando di sartoria ho menzionato quasi tutti i sensi, tranne uno: il gusto. Per quanto possa sembrare strano, anche lui è coinvolto. Le vecchie sarte usavano tirare i punti di imbastito con i denti, per poi sputarli in terra. Qualcuna li teneva in bocca e li masticava come fossero chewing gum. Che dire poi della deplorevole abitudine di tenere gli spilli tra le labbra? Quel sapore di ferro doveva essere vagamente eccitante, anche per la sensazione di pericolo che trasmetteva. Circolano parecchie storie (o leggende) raccapriccianti di sarte che in un momento di distrazione avrebbero ingoiato spilli..
Ma tra tutte le abitudini che riguardano il gusto e la sartoria, quella che preferisco è il gesto di bagnare il filo con la saliva prima di infilarlo nella cruna. Se si fa attenzione, si possono scoprire sapori diversi da filo a filo. Ma ammetto che la parte più bella non è tanto il sapore, quanto piuttosto quell’attimo di sospensione, di concentrazione che precede il risultato. C’è chi lo affronta con impazienza, chi con rassegnazione, chi invece, come me, come una pausa necessaria: come il punto che divide una frase dall’altra.
Ma mi accorgo di non aver menzionato abbastanza il senso dell’udito. Non è solo il suono delle forbici o della macchina da cucire che fanno da colonna sonora in sartoria. Una musica ben più intensa è quella che produce il movimento di ogni tessuto; a ognuno la sua. Si è parlato spesso del suono cartaceo del taffetà, io però mi incanto al suono del voile quando lo si getta sul tavolo per stenderlo; è un suono lieve come un sussurro e mi fa pensare immediatamente a tutte quelle minuscole ali contratte nei bozzoli dei bachi da seta.
Mi capita di sentirmi fuori luogo e fuori tempo a fare il mestiere che faccio e a ragionarci sopra. Qualcuno la chiama già archeologia della moda! E’ possibile che concentrati sul cucito nei nostri laboratori ci siamo persi l’attualità e siamo diventati, senza saperlo, dei pezzi da museo.
Sarà per questo che, come estremo atto di resilienza, a dispetto di quando si diceva che in sartoria il mestiere bisognava rubarlo, io insegno.
Mi capitano allievi di ogni età e provo a trasmettergli quel poco che ho imparato rubando o arrivandoci da sola dopo tentativi fallimentari. Poiché io non ne ho avuti, spero di essere un maestro almeno decente per qualcuno. E spero, soprattutto, che altri (magari più bravi di me) facciano altrettanto.
Niente ha senso se non si trasmette ad altri. I successi più grandi che ho avuto finora, sono negli occhi dei miei allievi.
(Fine).
(ph. Eleonora Manca). Coll. White Gothic, Adriana Delfino
Bello?
Dicevo dell’ago… Ecco, ci sarebbero molte storie, leggende e favole che ruotano attorno a questa macchina minuscola. Quello che apprezzo di più dell’ago, è la sintesi che gli appartiene, oltre al leggero brivido che trasmette quell’estremità sottile e appuntita. Un giorno mi piacerebbe raccogliere i racconti delle ricamatrici e delle sarte e farne un libro scritto ad ago su stoffa.
Io adoro gli aghi più piccoli, quelli con cui si possono fare punti praticamente quasi invisibili: gli orlini sullo chiffon, le rifiniture minute sul raso di seta sottile. Poi però amo anche i punti delle imbastiture. I fili per imbastire esistono di diversi colori, solitamente si usa quello bianco, io preferisco quello rosso lacca. E’ diventato per me una specie di rito scaramantico o piuttosto un semplice vezzo.
Un capo imbastito, con tutte quelle linee e punti in evidenza come una ragnatela imperfetta, racconta moltissimo. A chi sa guardare, spiega il processo di costruzione, che è sempre personalissimo. Ogni mano procede a modo suo: come la camminata, la mano si muove in modo inimitabile (ne ho già scritto qui…). Mi capita di fotografare i capi quando sono ancora imbastiti, solo così riesco a ricostruire il percorso fatto dalle mie mani, che a volte è frutto di un’intuizione estemporanea. A guardarle bene, quelle immagini mi ricordano le impalcature di un edificio, eppure sono fatte per essere disfatte. Forse è per questo, in fondo, che le fotografo. Per conservarne una traccia. Sembrerà strano, ma spesso io trovo più bello un capo quando conserva ancora tutti quei punti un po’ irregolari fatti con il cotone spesso e grezzo che si usa per le imbastiture. Trovo quel filo così bello, tanto da averci realizzato ricami.
Mi è capitato di disfare abiti cuciti 50-60 anni prima (o anche più) per riadattarli o fare modifiche. E’ sempre un momento emozionante, è come mettere le mani su piccoli tesori, un altro mondo. Quei punti raccontano una vita o perlomeno una porzione di vita. Si può capire se la sarta era una persona meticolosa o distratta, se amava quel lavoro o se altri pensieri disturbavano le sue ore. Si può intuire quando ci sono stati ripensamenti sul modo di procedere. E’ come fare la radiografia di un lasso di tempo.
Ogni oggetto conserva memoria di sé. In questo caso sono le dita di qualcuno che hanno lasciato tracce così evidenti da trasformarlo in un racconto scritto non con l’inchiostro, ma con il filo.
Mi piacciono anche le mani dei sarti quando si muovono agili per prendere le misure sui corpi dei clienti. Quasi non le senti, sono come ali di farfalle: velocissime e precise. Sanno dove appoggiarsi e dove tastare per trovare il punto giusto, capaci di non creare imbarazzo.
Si crea un sodalizio speciale con un sarto, probabilmente ancora più intimo di quello che si ha con il chirurgo. Un buon sarto rispetta il tuo corpo, comunque sia fatto; non ha alcuna pretesa di modificarlo, semmai di valorizzarlo.
E allora, fatemelo dire: God save the tailors! Perché sanno cos’è la lentezza e la pazienza, virtù troppo spesso bistrattate, ma essenziali per dare un senso ai misteri della vita. Perché sono impegnati a dare forma alla nostra seconda pelle, non così importante come la prima, ma è l’unica che scegliamo davvero.
..(continua)..
(Coll. Deep Blue, Adriana Delfino)
Bello?
Buongiorno,
sono una sarta e adoro cucire. Qualcuno dice che fa più chic dire fashion designer, ma è evidente che non sa di cosa parla e non sa che i primi furono i sarti e che la parola contiene più mondi di quanti lui possa immaginare.
L’ho già detto più volte, un sarto compie gesti pieni di grazia: quando si accomoda il metro morbido intorno al collo, quando accarezza il tessuto per lisciarlo e valutarne la superficie. Quando traccia segni con il gesso, come fossero coordinate o geroglifici di una lingua che lui solo sa decifrare; quando imbastisce linee di filo bianco che sembrano strade (mi sono chiesta più volte, quanti chilometri e chilometri ho imbastito nella mia vita?).
Poi c’è il suono delle forbici che cambia per ogni tessuto: secco per il taffetà, cupo come un tuono per la lana spessa, appiccicoso e acuto per la seta, asciutto per il cotone… Tagliare un tessuto sintetico è una delle cose più sgradevoli che mi possa capitare, ci sono forbici che si rifiutano di farlo. Posso capirle.
Cosa dire poi degli odori? Avete mai associato ad ogni tessuto il suo odore? Io li annuso prima di tagliarli. L’odore poi cambia con il calore del ferro da stiro e cambia ancora quando l’abito viene indossato durante le prove. Ci sono tessuti che hanno odori indimenticabili, come le persone in fondo.
Una delle tecniche più infallibili per conoscere la composizione di un tessuto è quella della bruciatura. Con il fuoco non si scherza, nessun tessuto può mentire e in quel caso gli odori sono prove inoppugnabili. Avete presente l’odore di corno bruciato? No? Peggio per voi, perché non saprete mai riconoscere una pura lana da una finta lana.
Bisogna ora parlare della macchina più importante che usa un sarto: l’ago. Un vero paradosso, pensateci: una linea che contiene un cerchio. E attraverso quel cerchio passano poi altre infinite linee. Una cosa che a rifletterci sarebbe un indovinello ideale, un rompicapo. Geometria e design. Un ago non si può migliorare perché è perfetto ed è uno strumento tra i più antichi (ricordo gli aghi in mostra al Museo Egizio). A qualcuno potrebbe venire in mente persino qualche associazione magica, simbolica. Potrebbe essere il dono di una civiltà aliena..
Io continuo a stupirmi di quello che un ago, del filo e una mano possono realizzare.
Mia nonna diceva l’ago è fine ma pesante, intendeva riferirsi alla fatica di un mestiere che ai suoi tempi consumava gli occhi e incurvava la schiena. In parte è ancora così, ma oggi è una fatica che è frutto perlopiù di una scelta. Per le ragazzine del tempo di mia nonna era una dotazione necessaria e praticamente obbligatoria, come saper cucinare o rassettare casa.
In vita mia mi è capitato di piegare aghi, ma difficilmente di spezzarne. Nel mio immaginario, quindi, l’ago è strumento di una ribellione silenziosa, come un punto fermo attorno a cui ruotano infiniti giorni e incontri e poi storie e emozioni e su cui si può sempre fare affidamento.
..(continua)..
Bello.
Il regalo più azzeccato di questa lunga estate me lo ha fatto mia suocera. Non so da dove arrivino, nemmeno lei lo sa. Però posso immaginare quante crune di aghi si siano fermate tra quegli avvallamenti. E anche l’intorpidimento che prende al dito medio dopo essere rimasto a lungo chiuso in quella gabbia di metallo. Posso immaginare il tempo passato dall’usura del metallo, schiacciato in alcuni punti: non è più un cerchio perfetto e questo lo rende ancora più affascinante.
Quello che mi dà da pensare è la misura più piccola, appartenuto senz’altro a una bambina, quando era d’obbligo insegnare alle figlie femmine il cucito e il ricamo. Non sono affatto sicura che fosse una cosa saggia.
Un ditale è un magnifico esempio di design. Quelli più moderni sono fatti di silicone, ma io non mi ci trovo bene, non sento lo stesso senso di protezione che mi dà il metallo.
Ci sono persone (perlopiù principianti a ben vedere..) che dicono di non sopportarlo, di non riuscire a cucire con il ditale. Conosco bene il caso, ero anch’io una di loro, molti, molti anni fa. Ma non c’è verso, un lavoro ben fatto non si può fare senza ditale. Qualche volta obbligo i miei allievi a cucire la pelle, giusto per fagli cambiare idea. Non è per sadismo, è che finchè non capisci la funzione delle cose, non ne apprezzi l’utilità.
Il ditale che uso ogni giorno, o quasi, è vecchiotto ma ancora in buono stato. Anche lui di metallo dorato, io lo trovo bello come un gioiello. Confesso che l’ho rubato a mia madre; lei non se n’è accorta, o ha fatto finta di non accorgersene.
Bello.
Le sfilate di alta moda parigina di questo inizio anno mi hanno delusa. Le ho trovate inutilmente pompose, prive di idee e ancor meno di sperimentazione. Un vero peccato mortale, considerando la quantità di denaro che mettono in gioco. Sembra stia prevalendo nella haute couture la logica che lentamente sta già uccidendo il pret-à-porter: quella del profitto ad ogni costo a discapito della creatività.
In una situazione dell’establishment così imbalsamata è possibile che voci nuove in contro-tendenza si facciano sentire, e mi pare sia quello che sta accadendo a Roma con la manifestazione AltaRoma, scampata per un soffio dall’essere cancellata e forse proprio per questo risorta più viva che mai.
E’ da un po’ di tempo che osservo il lavoro di LuigiMaria Borbone e questa sua ultima sfilata mi ha piacevolmente sorpresa: una collezione lontana dagli inutili virtuosismi, netta e concreta, ma insieme piena di riferimenti. Lo stilista manda in passerella una attualissima Giovanna d’Arco priva però di armature, disarmata e allo stesso tempo fortissima.
Così la descrive LuigiMaria: ..Una crociata non bigotta, che ama il lusso, ma non il barocco dei carrozzoni.
E’ facile intuire dietro al personaggio storico di Giovanna d’Arco le innumerevoli giovani donne che fanno parte di quella nuova tribù di nomadi di lusso, refrattarie alle convenzioni, spavalde ma anche consapevoli del rischio. Quelle come Pamela Des Barres, famosa groupie degli anni ’70 e altra Musa ispiratrice della collezione.
Mi è piaciuta la sintesi con cui lo stilista interpreta questo stile: pochi colori essenziali, forme asciugate da ogni esibizionismo, decori minimali e proprio per questo evidenti.
E’ possibile che l’avanguardia, in tempi in cui c’è abbondanza di tutto, sia la capacità di liberarsi dell’inutile. Una scelta che odora anche di piccola ribellione.
L’avanguardia è quella che lancia sassi in uno stagno, prima che tutti comincino a lanciare.
Bello.
Che cos’è un abito, un accessorio se non una fonte di ricordi? E’ quella macchina del tempo che ci rimanda a come eravamo in un momento preciso del nostro passato; racconta più di una foto, perché lo abbiamo portato sulla pelle, perché la sua tridimensionalità lo rende concreto.
Da queste suggestioni nasce il progetto di Palazzo Madama, Torino: Torino un secolo di moda. Di questo progetto fa parte la mostra inaugurata ieri e visitabile fino al 18 gennaio 2015, Affetti Personali – Storie di donne e di moda.
L’idea è proprio quella di creare una raccolta che parli di storia della moda attraverso gli oggetti donati dalle torinesi che hanno vissuto personalmente, o per altre vie, quegli anni in cui la città era il luogo della moda italiana.
Attraverso un dono la propria storia diventa così storia di tutti e quindi patrimonio protetto, condiviso e tramandato. Le storie che accompagnano questi oggetti di moda sono state raccolte inoltre su video consultabili sul canale youtube di Palazzo Madama, in modo che anche il racconto orale, prezioso, non vada disperso.
Le donazioni comprendono anche fotografie e attrezzi dei mestieri della moda e permettono di far luce su eccellenze artigiane ormai scomparse, ma fondamentali per annodare i fili di una storia del made in Italy che ancora stenta a trovare una completa esposizione.
Immagino che questo progetto, piccolo ma significativo, sia un bel modo per muovere i primi passi verso la creazione di sedi museali che contemplino la moda e la sua storia come fenomeno culturale anche in Italia. E chissà che altre città, considerate più glamorous in fatto di moda, non possano prendere spunto da questo esempio collettivo e gratuito.