Cristobal Balenciaga, “Le Chou Noir”, 1967
Yves Saint Laurent, “Matrioska”, 2002
Valentino, HC p/e 2019
Bello?
Cristobal Balenciaga vince su tutti.
Cristobal Balenciaga, “Le Chou Noir”, 1967
Yves Saint Laurent, “Matrioska”, 2002
Valentino, HC p/e 2019
Bello?
Cristobal Balenciaga vince su tutti.
Madeleine Vionnet
Valentino
Cristobal Balenciaga
Cristobal Balenciaga
Madeleine Vionnet
Jacques Fath
Charles James
Bello.
Quando si dice che la differenza sta nei dettagli, si dà per scontato che chiunque sia capace di notarli. Si dicono cose, a volte, che in realtà non stanno né in cielo e né in terra, perché i dettagli sono di per sé sfuggenti. Amano farsi beffa degli occhi poco allenati o frettolosi.
I dettagli (quei particolari in sordina che eppure reggono l’intera opera sulle loro fragili spalle), richiedono dedizione e premiano solo chi ha la pazienza di affrontare la lenta contemplazione. D’altra parte sono il frutto di menti e mani che di lentezza hanno fatto un mantra.
Chi avrà la pazienza di aspettare in premio la loro stupefatta scoperta?
Bello?
La collezione primavera/estate 2016 di Valentino è ispirata all’Africa e che questo continente sia un’ispirazione potente per la moda, è cosa antica. Forse bisognava trovare un punto di vista nuovo a tutti i costi? E’ da questo che nascono le dichiarazioni dei due direttori creativi della maison che toccavano il tema dell’immane tragedia dei profughi?
Peccato, perché credo che la collezione non ne avesse bisogno: è una collezione di abiti raffinati e ben fatti, coerente con lo stile del marchio.
Avverto nelle dichiarazioni di Chiuri e Piccioli un retrogusto di buonismo, tanto spiacevole quanto fuori luogo. Non è un connubio poco rispettoso quello che accosta il dolore e la fatica di questa gente al momento sfavillante di una sfilata? La moda racconta e si nutre della storia, è vero, ma funziona come un filtro. Altro non può fare. Calarsi nelle tragedie non le compete, meglio ancora: sono le tragedie che non hanno bisogno della moda.
A dirla tutta la mia impressione è che Chiuri e Piccioli non si accontentino più di essere i primi della classe, ora vogliono essere anche i più buoni.
Ho sempre saputo che la beneficienza è un gesto che si fa e non si dice, ancor meno si fanno proclami di buone intenzioni a cui non seguono fatti concreti.
Ci sono volte in cui meglio sarebbe stato tacere.
Bello?
E’ innegabile che durante le ultime sfilate milanesi si stiano palesando due scuole di pensiero, o macro-tendenze, o meglio due rette parallele che temo non si incontreranno mai.
Una è quella che ho battezzato come fattore Prada, e l’altra si potrebbe definire scuola Valentino. Ecco, di questo secondo gruppo fa parte l’ultima collezione di Alberta Ferretti per l’autunno inverno 2015-16.
Sono le due tendenze che sembra stiano risultando più convincenti sia sul piano mediatico che su quello commerciale. Mentre nel primo gruppo la ricerca è tutta concentrata sull’imperfezione chic (grazie ad Arianna per la definizione!) e sui risvolti concettuali dello straniamento che ne consegue, nel secondo gruppo la ricerca si sposta su un piano prettamente artigianale. La donna-tipo è un’ancella irraggiungibile e non a caso i riferimenti sono spesso rivolti a un passato molto lontano e classico: il Rinascimento, i pittori fiamminghi, i pre-raffaelliti..
Inutile dire che entrambi i gruppi alla lunga mostrano i loro limiti (e a giudicare dall’ultima sfilata, persino Miuccia sembra essersene accorta), e poiché a me piacciono invece i cani sciolti, resto collegata, in attesa di scorgerne e poterli apprezzare.
Bello?
Valentino alta moda aut. inv. 2014/15.
Forse l’eleganza in fatto di moda è questa? Un abito che potrebbero indossare tutte, ma proprio tutte senza sembrare troppo habillé e nemmeno troppo spoglie?
Bello.
I fatti, non le parole.
Non gli effetti speciali: dj-mangiafuoco, ballerine di can-can, immagini oleografiche in 3D, musiche di altri pianeti.. Tutte cose magnifiche e gradevolissime, ma in fondo inutili, se servono a coprire la mancanza di idee, o quell’unica idea che è sempre la stessa.
E’ vero, si chiama anche circo ed è chiaro che lo spettacolo fa parte del pacchetto. Ma cosa succede se lo spettacolo prende il sopravvento? Possiamo chiamarli stilisti-entertainers? Una nuova veste, un nuovo corso della moda (del business?)..
Potrebbe essere la soluzione. Sfilate come spettacoli fini a se stessi. I vestiti in fondo sono poca cosa: assemblaggio di pezzi di tessuto. E’ il concetto quello che conta, no? Gli stilisti si sentono artisti, gli artisti fanno gli stilisti. Concettuali, naturalmente.
E i giornalisti applaudono, perché questo è il loro ruolo.