Cambio armadio.

 

Bello.

Benvenuta Primavera

con piccoli germogli preziosi come oro

e roselline di un tenero rosa.

Benvenuta luce dei giorni lunghi

e benvenuti ai vestiti che sfiorano le caviglie

gonfiandosi ad ogni passo.

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Women of chic are wearing now dresses they bought from me in 1939. Fit the century, forget the year.

Bello.

Il suo nome per intero era Valentina Nicholaevna Sanina Schlee, ma divenne famosa con il solo nome di Valentina. Era arrivata in America dalla lontana Ucraina con molti sogni, una classe innata e una sfolgorante bellezza e con questo bagaglio non indifferente fu capace di vestire grandi star del cinema. Prima fra tutte la Garbo.

Il suo era uno stile misurato, che lasciava però trasparire un lusso sicuro, dichiarato. Non per niente affermava (sfacciatamente): “No matter how broke you are, always travel first class -otherwise you’ll never meet the right kind of people-“

Si intuisce, attraverso i suoi abiti, l’influenza di couturier del calibro di Madeleine Vionnet e  Madame Grès , e come darle torto? D’altra parte scelse le migliori e anche coloro che, agli occhi delle ricchissime borghesi americane, rappresentavano classicità e avanguardia insieme.  Il lusso supremo.

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Dancing in the past.

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Bello.

Non sono una fan di Steven Meisel, però questo suo servizio fotografico nell’ultimo numero di Vogue Italia è proprio nelle mie corde.

E’ evidentemente ispirato alle atmosfere patinate del musical anni ’30 e a personaggi come Ginger Rogers e Fred Astaire. Un chiaro ritorno ad un periodo storico in cui la moda usciva dalla ‘povertà di lusso’ di Chanel e si rivolgeva a un lusso concreto e stabile.

Le donne ritrovavano il gusto per la seduzione fatta di abiti che scivolavano sul corpo come una carezza e gli uomini non disdegnavano l’antico cilindro.

Erano gli anni in cui l’Occidente tentava di superare quel giovedì nero che aveva visto crollare la borsa di Wall Street, crollo che in pochi istanti aveva polverizzato capitali e sogni di ricchezza. Non era più il caso di sembrare fintamente povere, al contrario bisognava apparire benestanti a tutti i costi.

Non è certo un caso se oggi quello stile neo-classico torna in voga. Oggi che siamo reduci (o forse ancora nel guado?) da una crisi lunghissima ed estenuante, in cui il comparto moda ha pagato lo scotto di essere composto da beni tutto sommato superflui. E quindi si torna a un guardaroba fatto di abiti durevoli, classici per l’appunto.

Si parla di nuovo di cappotti, ma che siano di buona lana, o meglio di cachemire. Gli abiti da sera non ammettono stravaganze, quanto piuttosto uno stile impeccabile e un’eleganza senza incertezze. Le camicie bianche di Ferrè tornano ad essere attuali come non mai, simbolo classico per eccellenza.

La storia è ciclica, si sa. Anche la storia della moda.

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veletta 8 schiaparelli 1938Elsa Schiaparelli 1938

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1966

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1951

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2013

Bello.

Sarà un caso se le velette sono un tema ricorrente delle mie piccole ossessioni (o passioni) quotidiane? E non solo mie, da quanto vedo in giro.

Nascondere la faccia, questo mi viene in mente. Ma più della faccia, gli occhi.

Se in passato la veletta aveva scopi estetici o relativi al pudore, oggi a me sembra piuttosto uno stratagemma difensivo, oppure un sipario adatto a prendere le distanze.  Capisco bene il senso: la paura a volte lascia interdetti e muti e la voglia di scappare o celarsi è immediata.

Quel celare lo sguardo potrebbe però anche alludere al tentativo di sfuggire alla decodifica della parte più sincera di ognuno di noi: gli occhi, lo specchio dell’anima.  Forse l’anima è rimasto l’ultimo avamposto di una vera e totale privacy?

Per alcuni, temo, che il vero scandalo da nascondere possa essere l’assenza. Dell’anima.

Nostàlgia.

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veletta 2

Myrna Loy, 1932

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Agnes Ayres, anni ’20

veletta 4

Bello.

Lo so, farò la solita figura di quella un po’ retrò, anzi proprio vecchia (come dice spesso mio figlio!), ma io adoro le velette. Confesso di averne anche una piccola collezione, che raramente sfoggio: mi sentirei troppo osservata.

Però amerei possedere un pizzico di esibizionismo in più per potermene fregare degli sguardi della gente e con nonchalance andarmene in giro con il volto velato. Cosa che tra l’altro funziona meglio di Photoshop!

Le ultime sfilate hanno riproposto questo accessorio, appoggiandolo persino su berretti di lana. Io però continuo a preferirlo nel modo più classico: con piccoli cappelli o semplici acconciature.

Non si può, né si deve, secondo me, snaturare un concetto così affascinante come quello del mistero. La veletta, che mette una distanza effimera eppure efficace tra sé e il mondo, rimane per me l’oggetto del sogno. La rappresentazione bellissima di una moda che se ne infischia di necessità e velocità.  Lontana anni luce da questo tempo, vicinissima però al concetto più puro di moda.

Storie di donne e di moda – Palazzo Madama, Torino

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Bello.

Che cos’è un abito, un accessorio se non una fonte di ricordi? E’ quella macchina del tempo che ci rimanda a come eravamo in un momento preciso del nostro passato; racconta più di una foto, perché lo abbiamo portato sulla pelle, perché la sua tridimensionalità lo rende concreto.

Da queste suggestioni nasce il progetto di Palazzo Madama, Torino: Torino un secolo di moda. Di questo progetto fa parte la mostra inaugurata ieri e visitabile fino al 18 gennaio 2015, Affetti Personali – Storie di donne e di moda.

L’idea è proprio quella di creare una raccolta che parli di storia della moda attraverso gli oggetti donati dalle torinesi che hanno vissuto personalmente, o per altre vie, quegli anni in cui la città era il luogo della moda italiana.

Attraverso un dono la propria storia diventa così storia di tutti e quindi patrimonio protetto, condiviso e tramandato. Le storie che accompagnano questi oggetti di moda sono state raccolte inoltre su video consultabili sul canale youtube di Palazzo Madama, in modo che anche il racconto orale, prezioso, non vada disperso.

Le donazioni comprendono anche fotografie e attrezzi dei mestieri della moda e permettono di far luce su eccellenze artigiane ormai scomparse, ma fondamentali per annodare i fili di una storia del made in Italy che ancora stenta a trovare una completa esposizione.

Immagino che questo progetto, piccolo ma significativo, sia un bel modo per muovere i primi passi verso la creazione di sedi museali che contemplino la moda e la sua storia come fenomeno culturale anche in Italia.  E chissà che altre città, considerate più glamorous in fatto di moda, non possano prendere spunto da questo esempio collettivo e gratuito.

Djagilev, Nijinsky, Poiret: sete, splendori e miseria..

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Bello.

Mi è capitata tra le mani questa bellissima seta vintage, con cui realizzerò un tubino su misura, e immediatamente ho pensato ai Ballets Russes di Djagilev.

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Subito dopo, in automatico, mi è tornata in mente la descrizione della festa più spettacolare di tutti i tempi, quella tenutasi il 24 Giugno 1911 nel giardino della Maison Poiret: La Féte de la Mille et Deuxième Nuit (La Festa della Milleduesima Notte).

Nella sua autobiografia – Vestendo la Belle Époque – Paul Poiret fa una descrizione dettagliata di questo evento, che fu indimenticabile per tutti quelli che ebbero la fortuna di parteciparvi.

La descrizione prende intere pagine. Fu per il couturier, all’apice del successo, la realizzazione di un sogno personale, anzi la messa in scena della sua immaginazione più sfrenata:  ‘Avevo riunito molti artisti e avevo messo i miei mezzi a loro disposizione per realizzare un insieme che nessuno aveva mai potuto creare fino ad allora..’

Durante la festa fu rappresentato un Oriente misterioso e idealizzato, in cui naturalmente il sultano assoluto era proprio lo stesso Poiret e la sua favorita la giovane e bellissima moglie, Denise Boulet.

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Gli ospiti vennero forniti di abiti persiani autentici, per non rovinare l’atmosfera della festa. C’erano fontane che sembravano sorgere da tappeti antichi, c’erano cantastorie che raccontavano brani dalle Mille e una Notte, i viali erano cosparsi di sabbia del deserto e vi passeggiavano animali esotici.

“Alcuni alberi erano coperti di frutti luminosi blu scuri, altri portavano bacche luminose viola (…) In un angolo c’era la baracca della maga, che portava dei diamanti incastonati nei denti (…) Ed ecco il bar delle tenebre, in cui solo i liquori erano luminosi..”

Durante la festa le sorprese si susseguirono a un ritmo incalzante: danzatrici orientali, mercanti che inscenavano compra-vendite, un finto incendio culminato in fuochi d’artificio, suonatori di cetra, cuochi indù che preparavano cibi della loro cucina con ingredienti fatti arrivare per l’occasione.  E poi incensi e mirra fatti bruciare da servitori di colore, piramidi di cuscini orientali, una gabbia dorata abitata da odalische..

Poiret non badò a spese, come al solito. Usò il suo denaro così come faceva con l’immaginazione: senza freni. Un uso magnifico e rischioso che lo portò dagli splendori della Belle Époque allo spegnersi solo e in miseria nel 1944. Non se ne accorse quasi nessuno, un solo giornalista era presente al suo funerale, Lucien François, e così scrisse:

..un uomo non può, come Poiret ha fatto, dedicare la sua vita ad esaltare il prestigio del lusso in una città che vive di lusso e ne ricava tesori; un uomo non può, come Poiret, essere stato colui cui tanti artisti, sarti, industriali tessili, profumieri, devono indirettamente parte della loro fortuna; un uomo non può essere Poiret e morire in tale desolata miseria”.

Save gLOVE.

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Bello.

Lo so, le sfilate stagionali imperversano ormai da alcuni giorni, ma io confesso che finora me ne sono altamente infischiata. Mica per posa, è che ancora non mi va. Lascio ai giornalisti di professione l’incombenza di stare sempre sul pezzo. Questo è il bello di non avere padroni, almeno per quanto riguarda la scrittura.

Invece mi concentro su un accessorio che mi piace da sempre: i guanti. Quelli in foto fanno parte della mia piccola collezione. Mi sono stati perlopiù regalati e questo me li rende ancora più cari.

Comincio ricordando un paio di lunghissimi guanti di capretto bianco immacolato, prestatimi dalla moglie di un ex-ambasciatore per partecipare a una festa anni ’20 (erano i primi anni ’90). Passai la serata senza toccare cibo: non volevo togliere dalle mani e dalle braccia quella meraviglia di pelle sottilissima, ma nemmeno rischiare di sporcarli. Finì che uscii dalla festa un poco malferma sui tacchi dopo vari cocktail a stomaco vuoto..

Ho sempre trovato affascinante il gesto di sfilarsi i guanti dalle dita. E’ in fondo un poco come mettersi a nudo. Le mani sono una porzione di corpo che parla per noi così tanto, attraverso la forma, la gestualità, l’uso che ne facciamo. Rita Hayworth in Gilda con il gesto di sfilarsi i lunghi guanti di satin nero ha creato lo stereotipo della sensualità. Inarrivabile, più di innumerevoli spogliarelli.

Non mi piacciono i guanti di lana, anche se li uso per praticità. Trovo che nascondano il carattere delle mani, sono un accessorio del tutto privo di personalità. In più la confezione del guanto di lana non ha nulla a che vedere con il vero rito della manifattura di quelli in pelle o tessuto. I dandy dell”800 per realizzare i loro guanti si affidavano a due artigiani differenti: uno che confezionava solo il pollice, mentre l’altro si occupava di tutto il resto. In un famoso libro di Philip Roth –Pastorale americana- c’è un intero capitolo che racconta le complesse fasi di lavorazione dei guanti. E’ un capitolo che naturalmente ho adorato e letto più volte; è come un libro nel libro per me.

Ultimamente è stato aperto, proprio in una zona abbastanza centrale della mia città, un negozio che vende solo guanti, sembra faccia parte addirittura di una catena. Un giorno sono rimasta incantata a guardare le vetrine perché oltre ad alcuni antichi strumenti per la confezione, veniva trasmesso un video che documentava i gesti sapienti di un guantaio.

In fondo cosa rappresentano i guanti, se non il desiderio di mantenere celata una parte molto privata di noi? Di questi tempi, mi sembra una bella cosa che si torni a voler nascondere dopo che è stato svelato praticamente tutto.

Storia di una giacca – Il tempo ti fa bella.

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Bello.

In Giappone si chiama kintsugi, ed è una pratica che riguarda gli oggetti che hanno una storia e sui quali il tempo ha prodotto crepe e segni. Noi in Occidente diremmo molto semplicemente che si tratta di oggetti rotti.  Ma quando il tempo diventa un valore anche i suoi effetti sulle cose non sono più imperfezioni, ma la testimonianza di una storia percorsa.

Nelle crepe degli oggetti vissuti, o semplicemente danneggiati, i giapponesi colano dell’oro, proprio per valorizzare con il metallo più prezioso (a volte utilizzano persino platino) quel segno. Non un danno quindi, ma la bellezza dell’imperfezione.

La giacca vintage di paillettes quadrate opache color oro cucite su una base di chiffon di seta ha attratto la mia attenzione proprio perché era perfetta per mettere in pratica il kintsugi: mancavano strisce di paillettes un po’ dovunque, segno che era stata molto vissuta e anche molto amata, credo.  Il restauro avrebbe potuto essere di tipo tradizionale, ossia aggiungere paillettes più o meno simili lì dove mancavano.. L’idea non mi ha nemmeno sfiorata.  Ho cercato delle passamanerie metalliche color oro vintage, preziose proprio perché ormai fuori produzione. Con queste ho ricoperto le zone ‘vissute’.

Il tempo non è passato invano sulla mia giacca.

Parole in soffitta: eleganza.

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Bello?

Elegance is a discipline of life. Oscar de la Renta.

La prima immagine che mi è venuta in mente pensando alla parola eleganza è Tilda Swinton nel film ‘Io sono l’amore’: atemporale, apparentemente distante. Nel film l’attrice indossa la maschera del perbenismo, che le si incolla addosso, fino al punto che quando tenta di strapparsela è condannata all’autodistruzione.

Poi mi sono ricordata che nel mio laboratorio/atelier tra i vari ritagli e foto c’è una scritta che dice: il lusso costa meno dell’eleganza.

Mi sono tornati in mente questi particolari leggendo un articolo su La Repubblica di alcuni giorni fa, per l’uscita di un libro – L’élegance – scritto da Nathalie Rykiel, figlia della più nota Sonia.  La designer/scrittrice tenta, in qualche modo, di salvare una parola e un’attitudine che lei stessa non fa fatica a definire obsoleta e vetusta.  E’ un fatto che quando pensiamo a persone eleganti immancabilmente ci riferiamo a personaggi del passato: attrici, uomini di mondo, intellettuali..

Eleganza è stata sostituita da stile, che è un termine realmente fuori dal tempo, che non ha bisogno di riferirsi a un’etichetta, a regole vessatorie: passare inosservati è il massimo dell’eleganza, diceva Lord Brummel. Impensabile di questi tempi.  Ma non solo oggi: giorni fa guardavo un documentario su Diana Vreeland che era solita mettere un po’ di rossetto sui lobi delle orecchie e che affermava che lo stile necessitava di qualcosa di difforme, addirittura volgare.

Persino Gianni Agnelli, portato da molti come esempio di eleganza, non era certo immune da evidenti cafonate: come altro si può definire quel vezzo fin troppo celebrato di portare l’orologio sul polsino?

Quindi la tesi che la morte dell’eleganza sia un fatto di stretta attualità mi sembra infondata. Direi piuttosto che vista da un certo punto di vista – ossia da puristi – la parola corrisponde a una gabbia: immobile, noiosa e tutt’altro che soggettiva. Mentre al contrario il termine stile corrisponde a un significato difficile da definire, proprio perché arbitrario. Ci sono esempi infiniti di stile, mentre l’eleganza ha canoni precisi: niente di appariscente, pochi colori, fantasie minime, poco trucco, pochi gioielli. Insomma poco di tutto.  Viene il dubbio che per essere eleganti si debba ricorrere ad una sorta di ortodossia dell’apparire.

Mi chiedo se ha ancora un senso oggi usare questa parola. Definire una persona ‘elegante’ non è un po’ come tentare di salvare una specie in via di estinzione?  Se si sta estinguendo forse un motivo deve esserci.. La teoria dell’evoluzione prevede una selezione naturale e se l’eleganza non ha gli anticorpi per sopravvivere al tempo, credo sia più saggio riporla negli armadi sotto naftalina.

O lasciarla nei musei.