La storia infinita.

iris van herpen

Il video:

http://www.refinery29.com/2016/07/115869/iris-van-herpen-fw16-visionaire-video

 

Bello.

Iris Van Herpen dimostra come il futuro è fatto ancora di mani che si muovono, pensano e creano. E che senza quelle mani, tutta questa magia di visione, tecnica e inventiva non sarebbe possibile.

Al Louvre non espongono borsette 2.

christophe-coppens

Brutto.

Il mio ultimo articolo sull’artigianato ha fatto nascere (fortunatamente) alcune discussioni, qualche polemica e molto interesse. Di questo sono grata a tutti quelli che hanno dedicato un po’ del loro tempo a leggermi.

Una delle discussioni più accese verteva sulla classica dicotomia artigiano/artista, nonostante io non avessi mai menzionato la parola arte nell’articolo (artigianato artistico non vale, e sarebbe troppo lungo, forse inutile da spiegare).

Sull’argomento in questione ho già scritto.

Ma tanto per fare di nuovo e subito chiarezza, degli stilisti che si sentono però anche artisti io ne ho le tasche piene.  Anche di quelli che guardando l’ennesima prova di perizia tecnica, esclamano estasiati: -Un vero artista!-.

Si, va bene, qualcuno mi dirà che può essere un modo di dire, ma io non ne sono poi così convinta. La confusione è diventata una tale abitudine, che per ogni termine usato spunta subito qualcuno a ricordarti il suo punto di vista in proposito, o meglio, la sua interpretazione.

Allora ribadisco il mio punto di vista. Che è parziale, soggettivo, non assoluto*, confutabile e anche detestabile.  Per me la moda non è arte.

Ecco, ora aspetto rappresaglie sotto forma di distinguo ed eccezioni, oltre a qualche commento stizzito che mi ricorda: -Chi sei tu per deciderlo?-  *(Pregasi ritornare al paragrafo precedente).

Dirò di più, quando un mio collega annunciava pomposamente di volersi dedicare anche a lavori artistici, il più delle volte si rivelavano opere scadenti che nascondevano la frustrazione di non riuscire a produrre design convincente. E l’asino cascava immancabilmente quando al tuo appunto sull’irrazionalità di quel capo, ti veniva prontamente risposto: -Si, ma è voluto: è artistico.-.  Eppure basterebbe non dimenticare MAI che gli abiti sono macchine per vestire.

Forse l’arte, come la beneficienza, in alcuni casi andrebbe fatta in silenzio, per pura necessità personale, lasciando poi ai posteri (o anche solo agli occasionali osservatori) la decisione se si tratti o meno di una espressione veramente artistica.

D’altra parte la professione di designer richiede già un così grande dispendio di tempo e di energie, che mi chiedo davvero come facciate a dedicarvi anche a un impegno così totalizzante come è l’arte.  O forse siete dei geni.

Di questa tempra, nella storia, io ne conosco uno solo. Uno che riusciva ad inventare macchine così complesse e visionarie, oltre che tecnicamente e scientificamente accurate da avere anticipato, e di molto, i tempi. E contemporaneamente ci ha lasciato un’arte che non ammette discussioni se sia o meno arte.

Leonardo da Vinci.

 

(Immagine di Christophe Coppens)

P.s.  Le eccezioni sono sempre possibili.

Save gLOVE.

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Bello.

Lo so, le sfilate stagionali imperversano ormai da alcuni giorni, ma io confesso che finora me ne sono altamente infischiata. Mica per posa, è che ancora non mi va. Lascio ai giornalisti di professione l’incombenza di stare sempre sul pezzo. Questo è il bello di non avere padroni, almeno per quanto riguarda la scrittura.

Invece mi concentro su un accessorio che mi piace da sempre: i guanti. Quelli in foto fanno parte della mia piccola collezione. Mi sono stati perlopiù regalati e questo me li rende ancora più cari.

Comincio ricordando un paio di lunghissimi guanti di capretto bianco immacolato, prestatimi dalla moglie di un ex-ambasciatore per partecipare a una festa anni ’20 (erano i primi anni ’90). Passai la serata senza toccare cibo: non volevo togliere dalle mani e dalle braccia quella meraviglia di pelle sottilissima, ma nemmeno rischiare di sporcarli. Finì che uscii dalla festa un poco malferma sui tacchi dopo vari cocktail a stomaco vuoto..

Ho sempre trovato affascinante il gesto di sfilarsi i guanti dalle dita. E’ in fondo un poco come mettersi a nudo. Le mani sono una porzione di corpo che parla per noi così tanto, attraverso la forma, la gestualità, l’uso che ne facciamo. Rita Hayworth in Gilda con il gesto di sfilarsi i lunghi guanti di satin nero ha creato lo stereotipo della sensualità. Inarrivabile, più di innumerevoli spogliarelli.

Non mi piacciono i guanti di lana, anche se li uso per praticità. Trovo che nascondano il carattere delle mani, sono un accessorio del tutto privo di personalità. In più la confezione del guanto di lana non ha nulla a che vedere con il vero rito della manifattura di quelli in pelle o tessuto. I dandy dell”800 per realizzare i loro guanti si affidavano a due artigiani differenti: uno che confezionava solo il pollice, mentre l’altro si occupava di tutto il resto. In un famoso libro di Philip Roth –Pastorale americana- c’è un intero capitolo che racconta le complesse fasi di lavorazione dei guanti. E’ un capitolo che naturalmente ho adorato e letto più volte; è come un libro nel libro per me.

Ultimamente è stato aperto, proprio in una zona abbastanza centrale della mia città, un negozio che vende solo guanti, sembra faccia parte addirittura di una catena. Un giorno sono rimasta incantata a guardare le vetrine perché oltre ad alcuni antichi strumenti per la confezione, veniva trasmesso un video che documentava i gesti sapienti di un guantaio.

In fondo cosa rappresentano i guanti, se non il desiderio di mantenere celata una parte molto privata di noi? Di questi tempi, mi sembra una bella cosa che si torni a voler nascondere dopo che è stato svelato praticamente tutto.

Storia di una giacca – Il tempo ti fa bella.

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Bello.

In Giappone si chiama kintsugi, ed è una pratica che riguarda gli oggetti che hanno una storia e sui quali il tempo ha prodotto crepe e segni. Noi in Occidente diremmo molto semplicemente che si tratta di oggetti rotti.  Ma quando il tempo diventa un valore anche i suoi effetti sulle cose non sono più imperfezioni, ma la testimonianza di una storia percorsa.

Nelle crepe degli oggetti vissuti, o semplicemente danneggiati, i giapponesi colano dell’oro, proprio per valorizzare con il metallo più prezioso (a volte utilizzano persino platino) quel segno. Non un danno quindi, ma la bellezza dell’imperfezione.

La giacca vintage di paillettes quadrate opache color oro cucite su una base di chiffon di seta ha attratto la mia attenzione proprio perché era perfetta per mettere in pratica il kintsugi: mancavano strisce di paillettes un po’ dovunque, segno che era stata molto vissuta e anche molto amata, credo.  Il restauro avrebbe potuto essere di tipo tradizionale, ossia aggiungere paillettes più o meno simili lì dove mancavano.. L’idea non mi ha nemmeno sfiorata.  Ho cercato delle passamanerie metalliche color oro vintage, preziose proprio perché ormai fuori produzione. Con queste ho ricoperto le zone ‘vissute’.

Il tempo non è passato invano sulla mia giacca.

Un abito eterno.

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Bello.

Avevo scritto alcuni giorni fa di questo evento: Eternity Dress al Museo Galliera di Parigi, che vedeva Olivier Saillard insieme a Tilda Swinton impegnati in una inusuale performance in onore di quella che veniva chiamata ‘archeologia sartoriale’.  In quel post raccontavo le mie perplessità riguardo alla definizione e alla stessa operazione. Ma devo fare ammenda, e infine con autentica gioia ricredermi.

Ho ricevuto da Parigi una lettera dall’amica Clara Tosi Pamphili, che è riuscita a trasmettermi il senso e l’atmosfera di un rito, ancor prima che di un mestiere, o un fatto artistico.  Ecco, è così che ho sempre pensato ai gesti di un sarto, e Clara magicamente è entrata in sintonia col mio pensiero.

Questa è la lettera:

“Adriana cara,

ti scrivo da Parigi. Novembre é quasi finito, fa freddissimo, sono qui per lavoro, pensavo di vedere quello che normalmente una città come questa può offrire in un momento di ordinario calendario e mi ritrovo a non avere il tempo di “guardare tutto”. In tutto lo sconforto di tante cose bellissime a confronto del poco che c’è da noi una mi ha ferito più delle altre.

“Eternity Dress” é la seconda collaborazione fra il Palais Galliera, quel meraviglioso museo della moda, e Tilda Swinton.

Ti dico subito che il primo sentimento é stato quello dell’importanza della performance all’Ecole des Beaux Arts: i biglietti già esauriti dal mese di gennaio, l’ansia della lista d’attesa e l’entusiasmo di riuscire ad entrare.La seconda sensazione é stata l’invidia per un paese che riesce a parlare di moda mettendo in collaborazione istituzioni, come un museo e l’università, facendo una performance artistica contemporanea capace di rappresentare degnamente il rito del lavoro sartoriale.

Adriana tu sai quanto parliamo di artigianato, quante mostre e fiere e campagne pubblicitarie si montano sulla promozione di attività creative manuali cercando di ricreare nuovi interessi. Siamo riusciti a convincere i giovani che cucinare é molto cool ma non siamo riusciti a convincerli che fare il sarto che sa fare un abito lo sia quanto essere stilista.

Tutta la performance racconta la realizzazione di un abito: Olivier Saillard, direttore del Museo Galliera, con un metro intorno al collo e con tutti gli strumenti tradizionali misura il corpo di Tilda, insieme riportano le cifre sulla carta. Fanno un esercizio di modellistica. Compiono un rito per realizzare “Une robe, une seule” un abito, uno solo. E’ uno spettacolo commovente, accompagnato da una musica perfetta che sottolinea la voce di lei quando scandisce i numeri delle misure, i tipi di colletti o quando elenca i  couturier cambiando posa ad ogni nome.

Lei é l’abito che indossa, lei rifiuta decori inutili, lei arriva all’essenza di se stessa grazie alla conoscenza delle proprie misure, quelle che permettono al suo corpo di muoversi con eleganza.

Avrei voluto che lo vedessi, tu che sai giudicare, avresti applaudito anche tu come tutti quelli che erano lì, saresti stata colpita da come si possa parlare di archeologia di moda prima che di fashion system.

Un capolavoro. Volevo dirtelo.

Tua

Clara”

Grazie Clara.

Una storia italiana (di ago, ditale e avanguardia).

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Bello.

Germana Marucelli è un altro di quei nomi poco, pochissimo noti all’interno della storia della moda italiana. Fortunatamente è di questi giorni un evento che restituisce al suo lavoro il giusto peso.

Germana era innanzi tutto una sarta, bellissima parola, che chi mi conosce sa quanto io tenga in considerazione.  Ma naturalmente non era solo questo. Diciamo che partiva da questa sapienza tecnica, altissima, per potersi esprimere anche a livello intellettuale.  Un’intellettuale del cucito, si potrebbe dire, e a chi storcesse il naso davanti a questa definizione suggerirei di andarsi a leggere la biografia, che contempla collaborazioni con artisti del calibro di Piero Zuffi e Getulio Alviani, mentre i suoi giovedì erano frequentati da personaggi quali Giò Ponti, Savinio, Casorati, Fontana, Quasimodo, Zanzotto, ecc.

Germana Marucelli era una donna concreta ma con un grande talento nell’annusare le tendenze e il futuro: è documentato dai suoi modelli il fatto che prevenne il new look quando ancora non era nemmeno nato. Ma si sa, una sartina italiana non avrebbe potuto certo competere con Monsieur Dior..  Però poteva ispirarsi a Picasso, Mirò, i surrealisti, e lo fece.

Fu attiva dagli anni ’20 fino al 1972  inventando tutto ciò che poteva e catturando l’aria del tempo come pochi altri. Lavorò nella Milano che non era ancora stata invasa dal prêt-à-porter, vestendo le donne più esigenti del suo tempo, italiane e non. Non si curò di quelle correnti sotterranee che stavano invadendo il mondo della moda per trasformarlo in gran parte nel circo che sarebbe diventato. Questo le costò un effettivo isolamento negli ultimi anni della sua carriera e credo anche l’oblio di cui il suo nome ancora risente.

Ci sono tesori nella storia della moda italiana che non brillano ancora quanto potrebbero e dovrebbero. E’ un vero peccato, ma anche un dovere per chi si occupa di questo settore, provare a scostare un po’ di polvere.

L’orgoglio italiano (galline alla riscossa).

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Brutto.

Nasce nella rete e si diffonde a macchietta d’olio quello che si autodefinisce ‘italian pride’, a difesa di un ingarbugliato concetto di stile e avanguardia industriale che non contemplano il termine artigianato. Termine ritenuto ormai off..

Stranisce però notare che chi lo propone faccia madornali errori di sintassi. Ma si sa, la fretta, la tastiera del telefonino.. Innumerevoli sono gli alibi.  Ma anche la lingua (italiana) richiede rispetto, non solo lo stile.  Non me ne vogliano i diretti interessati, ma parlare -o scrivere- in una piazza significa anche esporsi volutamente a delle critiche.

L’orgoglio per le proprie radici è cosa sacrosanta, ma riguarda, credo, ogni singola nostra giornata e soprattutto la cura che mettiamo nello stare al mondo.  Parlando di moda, la storia italiana documentata ci racconta di un gusto e un saper fare eccellenti.  Basterebbe che ogni operatore di questo settore ragionasse e agisse solo dopo aver realmente masticato e digerito quella storia.  Credo che allora davvero il cambiamento sarebbe radicale.

In realtà il divario tra le effettive eccellenze (tra cui grandi artigiani, Ferragamo per esempio..) e i troppi finto-esperti è sconsolante.

Dopodiché assistiamo e leggiamo di esempi di grande ignoranza: artigianato scambiato per bric-à-brac, arte applicata questa sconosciuta, fiere paesane che si fregiano di proporre vero artigianato artistico..

Infine, sempre sul tema dell’artigianato, mi irritano molto quelli che pensano che fare il sarto/a significhi produrre abbigliamento di serie B, invece di riflettere sul fatto che probabilmente si tratta di un mestiere -o una specie- che andrebbe protetto, perché depositario di un sapere fondamentale, anche e soprattutto in termini di innovazione. Suona strano, lo so, ma l’innovazione quasi sempre parte dalla tecnica.  Dimenticando anche che sarto/a è la traduzione dal francese di couturier.  Ma quanto suona diversamente questo termine, vero?

Be Yourself – Design russo.

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bu wood 3

bu wood 2

Bello.

Si chiama Anya Bumagina la designer della collezione di borse Bu Wood.  Anya è russa ed è l’ulteriore conferma che da quelle latitudini ormai non provengono più solo ricchi parvenu privi di gusto e pieni di soldi.  Le nuove generazioni hanno studiato in scuole eccellenti, hanno girato un po’ di mondo e visto parecchio, e si sono costruite un’estetica di tutto rispetto.  Come dimostrano queste borse.

Gusto cosmopolita, artigianato italiano.

Il design di queste borse viaggia a metà strada tra minimalismo e richiami retrò, hanno un’anima di legno di pioppo italiano e sono rifinite una per una artigianalmente (e si vede). Si ispirano ai vecchi bauletti e alle cappelliere anni ’50 e ’60. La mia preferita è quella tutta in legno, con le venature in bella mostra, quasi una scultura,

Forse l’unico appunto che gli si può fare è che non sono adatte a contenere moltissimo, ma si sa, l’estetica ha il suo prezzo. A proposito, non sono riuscita a capire quanto costano..