Per Natalie.

Nat

Bello.

Aveva quel sorriso sghembo Natalie, frutto di una bellezza inconsapevole. Si portava dietro una strana e dolcissima tristezza che era probabilmente il frutto di qualche segreto dolore.

Era gentile, sempre, e questa è una virtù a cui non si dà mai la dovuta importanza. Era alta, sottile, sembrava attraversare la vita con noncuranza. Sono sicura che invece ogni cosa le arrivava dritta addosso.

E’ stata una delle mie prime modelle e non credo di averla ringraziata mai abbastanza per il tempo che mi ha regalato, quel tempo in cui tutti eravamo giovani e, per l’appunto, pieni di tempo.

Ora il tempo per Natalie non scorre più, perchè Natalie se n’è andata.

Ho un ricordo vivissimo di quei giorni in cui facevo i miei primi esperimenti di moda, sbagliando per troppo entusiasmo, seguendo solo l’istinto. Lei fa parte di quei ricordi, di quei primi vestiti e di quel tempo in cui non c’erano mezze misure. Ci si muoveva nella vita con un andazzo naif e tanta buona volontà: non c’erano ancora i cellulari e i social e i rapporti non passavano attraverso filtri.

Ci si incontrava per fare cose, sviluppare progetti; si passavano serate a discutere e i miei vestiti allora, quasi sempre, nascevano da quel processo. Tra le facce di quel tempo compare lei: i suoi capelli arruffati e lo sguardo divertito.

Le devo almeno questo, un ricordo e un grazie tardivo.

 

p.s. Le foto sono di Maren Ollmann.

Sogno di una notte di mezza estate.

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Bello.

Questo è facile; facile come bere un bicchier d’acqua. Qualcuno oserebbe dire che non è una bella immagine, un abito sublime, una storia affascinante (per i meno informati, l’abito è di Madame Grès)?

Ma non c’è niente di male, a volte, ad andare sul sicuro. Tra mille difficoltà si può scegliere qualcosa di facile come la bellezza degli abiti di Madame Grès, che sembrano eterni.

Ecco, io vi/mi auguro un’estate facile, perlomeno quello che resta dell’estate.

Svegliarsi nelle prossime mattine senza gli affanni e senza quei pensieri che molestano le notti e si allungano spesso anche sui giorni. Vi/mi auguro di dormire notti pacifiche e fresche che al mattino vi lascino un unico pensiero leggero.

Vi/mi auguro di indossare abiti facili: quelli che si indossano velocemente e velocemente si ripongono; con i colori giusti, che vi scaldano al solo guardarli. Gli abiti che pesano come una piuma e si appoggiano lievemente anche sul cuore.

Buon agosto.

L’insostenibile arte di stare al mondo.

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Brutto.

L’ingratitudine è una delle cose che più mi fanno soffrire.  Certo, con il tempo ho imparato che rappresenta una fetta considerevole delle manifestazioni umane in fatto di scambi reciproci, ciononostante ancora rimango sconcertata.

La moda è un sistema complesso (come tutti i sistemi d’altronde), non sfugge alle regole e alle consuetudini che valgono per ogni settore umano e poichè di persone si tratta, sarebbe bene concentrarsi ogni tanto su quello che io chiamo l’arte di stare nel mondo.

Sarà bene ogni tanto ribadire che anche nella moda valgono parole e fatti che si chiamano etica, lealtà, buona educazione, gentilezza, sensibilità, riconoscenza, umiltà, intelligenza.  Sembra scontato, ma non lo è affatto.  Lo constato ogni giorno, scontrandomi con episodi di “normale” smemoratezza verso ognuno di questi termini.

la moda, anche quando non sembra, possiede in sè questo impulso verso la bellezza che è il motore che la alimenta, e automaticamente chi la frequenta dovrebbe essersi fatto più volte domande in merito. Cosa è bellezza? Sono solo gli abiti o piuttosto un’attitudine? E’ relativa a un modo di essere, di muoversi nel mondo che in questo caso si esplicitano nel disegnare vestiti? Si possono fare abiti belli pur essendo delle brutte persone?

Nei miei corsi tento continuamente di far passare alcuni di questi concetti. Provo a piantare semi, sperando che prima o poi diventino piantine. Immagino che la presenza di un maestro sia pur sempre necessaria e, con i miei limiti, provo ad esserlo.  Cerco di insegnare che la bellezza risiede anche nei gesti piccoli che riguardano solidarietà e rispetto per chi ci vive intorno. Che la moda può a volte offuscare il senso critico ed è perciò necessario rimanere centrati su di un nucleo di autenticità.

Ma la bellezza a volte fugge lontana, mentre il mondo fatto di parole come successo, fama, soldi, notorietà… Prende il sopravvento.

Ed è ogni volta una piccola/grande delusione.

 

 

Le stecche son tornate.

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Ulyana Sergeenko

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Guo Pei

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Jean Paul Gaultier

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Viktor & Rolf

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Alexandre Vauther

Bello?

Eccolo di nuovo in passerella: il corsetto. In realtà non se n’è mai andato del tutto, periodicamente riappare, come a ricordarci quello che siamo state e che rischiamo ogni giorno di essere ancora.

Certo non è più l’oggetto costrittivo e deformante che era in origine, ma comodo proprio non lo sarà mai.  Se vuoi essere bella devi soffrire, come dire che l’aspirazione alla bellezza merita una punizione.

A quanto mi risulta, una delle prime ad eliminarlo completamente fu Madeleine Vionnet: “Io stessa non ero mai stata capace di sopportare corsetti,  quindi perchè mai avrei dovuto infliggerli alle altre donne?”  Era il 1907.

Molti pensano che il primo fu Paul Poiret, che nella sua autobiografia si vantava già nel 1905 di aver dichiarato guerra all’indumento. In realtà lui lo sostituì solo con una guaina, che oltre alla vita costringeva anche seno e sedere. Bel cambio! Per non parlare della jupe entravée, che obbligava le signore a camminare come geishe… Ma questa è un’altra storia.

A dispetto di quanto molti credono, quando arrivò Chanel il lavoro era già fatto, e lei potè trarne solo i vantaggi. I vari movimenti riformisti, quelli si, avevano contribuito a ridare alle donne la forma che la natura aveva previsto per loro.

Ogni volta che rivedo il corsetto tornare di moda, sento un campanellino d’allarme che suona da qualche parte. Cosa rappresenta e cosa ha rappresentato questo oggetto? Credo sia stato uno dei complementi dell’abbigliamento femminile (e in piccolissima parte anche maschile) più longevi nella storia del costume e della moda. Questo significa qualcosa.

Ha condizionato la vita sociale delle donne, quando non la stessa vita fisica: quante donne sono morte di parto a causa delle deformazioni provocate dall’uso del corsetto? Ha rappresentato l’impossibilità di fare materialmente molte cose, prima fra tutte respirare a pieni polmoni.  Oggi, certo, si dirà che il corsetto è un vezzo, che è solo uno dei tanti revival che la moda periodicamente pesca dal passato.

Ma la moda non pesca mai a casaccio, sappiamo che c’è sempre un nesso tra ciò che indossiamo e ciò che siamo o desideriamo essere. Quando Dior lo riportò in auge erano gli anni ’50 e la condizione delle donne fece una brusca frenata: vi ricordate le pubblicità di quegli anni, dove perfette e rassicuranti massaie erano tutte intente a far risplendere la casa e attendere sorridenti il marito di ritorno dal lavoro?

Quindi perchè il corsetto proprio ora?  Rifletto sui programmi politici di Trump e Putin, due tra gli uomini più potenti del pianeta, che non prevedono passi avanti rispetto alla condizione delle donne, al contrario. Ecco che suona il mio campanello d’allarme. Penso anche a tutti quei movimenti religiosi fondamentalisti che stanno minacciando le nostre libertà e quella delle donne in primis. E poi mi vengono in mente tutti gli episodi di femminicidio e violenze fisiche e psicologiche nei confronti delle donne di cui è purtroppo piena la cronaca.

Il corsetto mi appare allora in tutta la sua sinistra funzione repressiva. Non so se la sua comparsa sulle passerelle sia un monito o una minaccia, so comunque che non è una casualità.

Robert Piguet:la semplificazione del lusso.

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1930

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1940

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1951

 

Bello.

Robert Piguet era svizzero di origine, ma, negli anni trenta e anche dopo, veniva definito come lo stilista più parigino dei parigini.

La sua è una storia lineare: una vocazione precoce, il trasferimento a Parigi, l’apprendistato presso importanti case di moda. Poi l’apertura della propria maison, il successo.  Coniugava con il suo stile due insegnamenti (solo) apparentemente inconciliabili: l’uso del colore opulento appreso da Poiret e la semplificazione e funzionalità appresi da Redfern.

La selezione delle immagini relative alle sue creazioni, mi ha portato a scegliere questi esempi che mi sono sembrati subito notevoli. Si riconosce un approccio singolare, l’uso di tagli sperimentali per quegli anni. A me pare di cogliere anche un sincero amore per il mestiere, che si confermò con la presa di posizione durante l’occupazione nazista a Parigi: così come altre case di moda, si rifiutò di portare la sua moda a Berlino.

Quello che apprezzo in questi abiti è la semplificazione del lusso. La mano del couturier è innegabile, ma dietro si intuisce la presenza del designer. Un passo avanti non indifferente.

Nella biografia di Piguet sembra non esserci spazio per il narcisismo che affligge e affliggeva molti couturier: lasciò grande spazio ai giovani collaboratori, formandoli e accogliendo le loro idee.  Collaboratori come Dior, Hubert de Givenchy, Balmain.

Ogni volta che mi avvicino a questi grandi nomi provo a immaginare cosa sia stato per loro il cambiamento radicale di prospettiva creato dalla guerra. Credo che ci sia voluto uno sforzo di volontà notevole per continuare a pensare alla bellezza in un mondo piombato nel lutto.

Piguet si spense nel 1953. Nel 1951 aveva chiuso l’attività, in fondo lavorò fino quasi alla fine.  La dedizione al mestiere è il tratto che ritrovo in tutta questa generazione di creatori di moda. Una cosa semplice, lineare, un valore che ottimisticamente credo che diventerà di nuovo di moda.

A beauty history.

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1950

Bello?

Guardo queste immagini e osservo quanto di questa bellezza derivi non tanto da un assoluto di perfezione (o almeno qualcosa che vi si avvicini), piuttosto da un’aura di mistero.  La distanza, forse quel leggero pudore di chi non mostra mai tutto.

Può darsi che la bellezza sia qualcosa che manca, che ci manca? Un tassello che non riusciamo a trovare?  Forse quel tanto di perfezione che ci è negato per sempre.

Il lusso della povertà.

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Bello:

“Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.

I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.

La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.”

(Goffredo Parise1974)

L’alta moda è arte?

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Bello.

Viktor & Rolf haute couture FW 2015/16, ovvero una ulteriore riflessione su moda e arte.

Quanto c’è di artistico in certi abiti e quanto conta la moda del momento per alcuni artisti? Ci sono artisti che vanno di moda? Ci sono stilisti che più di altri si fanno ispirare dall’arte? Ci sono stilisti che sfruttano l’arte o gli artisti per darsi un tono?

E poi, chi compra alta moda è lo stesso che colleziona arte?

Sembrerebbe di si, visto che uno degli abiti della collezione è stato prontamente acquistato da un collezionista per donarlo ad un museo di Rotterdam. Quindi sembrerebbe scontata almeno una risposta: se va in un museo, questa moda è arte.

Rimane però il dubbio se sia ancora moda…

Quanto pesano questi vestiti? Sono realmente pensati per vestire un corpo piuttosto che essere appesi ad una parete?

Personalmente ciò che mi intriga dell’alta moda è proprio questo non tener conto della realtà, dei limiti e della coerenza. Caratteristica che più di altre la accomuna all’arte. Rimango convinta che moda e arte percorrano strade diverse che si intersecano di sovente.

Ed è proprio a quegli incroci che si assiste a piccoli miracoli di bellezza.

P.s. Va da sé che io non ho verità in tasca, né risposte certe per tutte queste domande. Inoltre so bene che le domande non sono quasi mai sciocche, mentre lo sono a volte le risposte.

Quando Moda incontra Arte.

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Quello che veramente mi interessa e mi emoziona è il sentimento del tempo.  Il tempo che produce stratificazioni oppure, all’opposto, sottrae fino ad arrivare all’essenza. Questa collezione si chiama -Gotico Bianco- perché nell’oscurità io vedo una luce accecante.

Bello.

Mi è capitato più volte in passato di lavorare a stretto contatto con artisti. Si è trattato sempre di collaborazioni in cui vigeva un tacito patto di libertà reciproca e di estremo rispetto, altrimenti credo che nulla sarebbe stato possibile.

Devo riconoscere di essere stata fortunata (o magari solo avveduta): nella quasi totalità dei casi ho vissuto esperienze positive, che mi hanno permesso di scorgere altri mondi e di ripensare al mio modo di trovare stimoli. Riflettendo sulla storia della moda, ho notato che le collaborazioni più proficue tra moda e arte sono state quelle in cui questi due comparti se la intendevano alla pari. D’altra parte credo che la moda meriti ogni rispetto quando si pone come un fatto di cultura e contenuti, oltre che di forma (ma anche la forma rimanda spesso a un percorso di contenuti).

E’ con questo atteggiamento che ho colto al volo l’occasione di collaborare con due artisti: Eleonora Manca e Alessandro Amaducci. Il progetto riguarda la realizzazione di due short fashion-film in cui sono presenti gli abiti di due mie collezioni molto diverse. La prima (relativa alle foto di questo post) è Gotico Bianco, una micro-collezione di cinque abiti realizzati come pezzi unici con un lino antico tessuto a mano e ricami a intaglio e applicazioni preziose.

Le riprese di questo primo video si sono già svolte e a questo punto è iniziata la fase di montaggio. Sono estremamente curiosa del risultato finale, ma ciò che in questa prima fase mi ha stupito in positivo, è l’estrema naturalezza con cui si è svolto il lavoro. Credo si possa parlare di fiducia. E’ una magica alchimia quando si incontrano persone contemporaneamente sensibili e concrete.

Ma meglio delle parole, credo che possano parlare alcune immagini del backstage, che documentano l’atmosfera vissuta:

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The real, new Dandies.

Bello.

Giorni fa, a scuola, un allievo mi ha chiesto chi fossero oggi i discendenti dei dandies ottocenteschi. Ho dovuto ammettere in quel momento che non me ne veniva in mente nessuno. Leggendo le gesta di Beau Brummel che era maniacalmente attento a ogni singolo, minuscolo dettaglio e allo stesso tempo considerava il suo agire come una filosofia di vita, oltre che una scelta estetica, riflettevo sul fatto che in confronto i pavoni contemporanei mi paiono ben poca cosa.

Ma non avevo preso in considerazioni i Sapeurs  (adepti della SAPE, Société des Ambienceurs et des Personnes Elégantes).

Eccoli i nuovi, veri dandies. Che sfidano il tempo, il luogo, le circostanze, tutto in nome della bellezza. E possiamo facilmente immaginare che non sia una cosa affatto facile, né priva di conseguenze (e credo non sia un caso se dal francese sapeurs si può tradurre anche come “guastatori”).  D’altra parte il movimento nacque come atto di disobbedienza civile durante il regime di Mobutu Sese Seko.

Basta ascoltare le loro parole.