Il “buon gusto” secondo Diana.

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Bello?

“Elsie, naturalmente, aveva un gusto meraviglioso, come tutti quelli che ho conosciuto in Europa. Di certo si nasce con il buon gusto perché è davvero difficile acquisirlo. Si può acquisire la patina del gusto. Ma ciò che Elsie Mendl possedeva era qualcos’altro, che è tipicamente americano: apprezzava la volgarità.  La volgarità è un ingrediente importantissimo nella vita. Credo molto nella volgarità…se esprime vitalità.  Un pizzico di cattivo gusto è come una bella spruzzata di paprika. Abbiamo tutti bisogno di una spruzzata di cattivo gusto; rinvigorisce anima e corpo. Credo che dovremmo usarne di più. E’ alla mancanza assoluta di gusto che sono contraria.

Ciò che attira la mia attenzione in una finestra sono le cose orribili… la robaccia. Anatre di plastica!”

(cit. Diana Vreeland, da D.V.)

 

L’accostamento che fa la Vreeland tra cattivo gusto e volgarità mi sembra interessante. Trovo in lei quel coraggio di osare, anche a costo di sbandare, che manca alla maggior parte dei costruttori o divulgatori di moda odierni.  Tutti presi a rimanere in bilico tra manierismo e audacia (ma controllata).

La volgarità di cui parla Vreeland è vivace, ossia qualcosa di vivo, che trasmette una emozione, un movimento.  Può anche non piacere, ma desta comunque interesse. Si prende il rischio di non piacere, e in effetti a molti non piaceva.

Mi salta subito all’occhio una somiglianza: il termine volgare deriva dal latino vulgaris, derivato di vulgus: volgo, popolo. Ossia popolare. Stessa etimologia di pop (popular).

Vreeland capiva benissimo che quel pizzico di paprika di cui parlava era indispensabile non solo per attrarre l’occhio, ma anche per arrivare dovunque e a chiunque. Non era un discorso elitario il suo.

Provate oggi a dire a qualcuno che i suoi abiti, le sue idee, la sua persona sono volgari..

 

A volte ritornano. (I bigotti).

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Brutto.

La notizia oramai è risaputa: la Rai, Radiotelevisione Italiana stabilisce il nuovo dress-code per i giornalisti che appaiono in video, con un’attenzione particolare per quelli di sesso femminile.  E la direttrice di Rai 3, Daria Bignardi, convoca immediatamente gli addetti ai lavori per puntualizzare che non saranno ammesse scollature, tacco 12, trucco, parrucco e accessori vistosi, nonché i tubini neri, giudicati troppo sexy.  Sobrietà è il nuovo diktat.

In questa frenesia neo-talebana sono ritenute sconvenienti anche le braccia scoperte, che notoriamente veicolano un’immagine altamente peccaminosa.

Sono molte le considerazioni che si potrebbero fare (e che sono state fatte già da altri), a me interessa piuttosto riflettere sul significato che questo restyling assume in termini di stile, appunto.

Su tutto questo nuovo corso aleggia una parola chiave, che non viene però mai menzionata, ma si intuisce immediatamente: buon gusto.

Che cosa significhi buon gusto, ce lo siamo chiesti fino allo sfinimento. Inutilmente, perché, a parte la retorica che si trascina dietro, il buon gusto semplicemente non esiste. Esiste quello che ognuno definisce come gusto personale. E infatti non faccio fatica a riconoscere dietro queste regolette appena emanate, il gusto personale della signora Bignardi e il suo radicalismo chic.

Il problema, da sempre, nasce quando una opinione personale diventa talmente invasiva e perentoria da venire confusa come una esigenza generale. E chi se ne fa portavoce, come il detentore di una verità diffusa.

Personalmente troverei adorabili, in televisione o altrove, acconciature vistose appoggiate sopra teste pensanti. Ma allora non si tratterebbe più di una operazione di restyling, che riguarda, si sa, solo una facciata. Allora si, potremmo parlare di un cambiamento; ma i cambiamenti costano fatica, richiedono coraggio, prevedono assunzione di responsabilità.

Molto meglio accontentare il parterre dei benpensanti, e in un sol colpo azzerare il tentativo di andare avanti anziché quello di tornare indietro.

Donne senza gonne.

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Brutto.

Prada, pre collezione autunno-inverno 2016/17.

Non è certo la prima volta, già nel 2007 aveva mandato in passerella modelle in mutande e per rinforzare la presa di posizione nel 2012 dichiarava: “La mutanda è un oggetto che mi piace moltissimo”.

Non è quindi con stupore che mi accingo ad osservare questa collezione, che mi lascia moderatamente indifferente e quindi mi soffermo sulla parte inferiore degli outfit che mi appare immediatamente come il tentativo della stilista. mai sazio, di apparire contro-corrente.

Una boutade, un gesto puerile, un infantile vezzo;  perdonabile difetto.  Ma attenzione, perché contro-corrente si può solo esserlo.

Lo sforzo di sembrare vanifica i risultati, lascia trapelare una inadeguatezza, una posa che è poco meno che spocchiosa.

Posso immaginare che da quando i leggings popolano e spopolano sulle nostre strade, fregandosene del buon gusto o giù di lì, portarli in passerella sembrerebbe superfluo.  E’ perciò opportuno andare oltre: la calzamaglia quindi.

E qui vai a tirare in ballo ispirazioni forse medioevali, sicuramente secentesche (!), perché non esiste di immaginare altro che non sia squisitamente intellettuale.

Il gioco della moda è anche questo: far brillare ciò che altrimenti sembrerebbe insignificante.

Quei dinosauri della moda.

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Una delle ultime interviste a Giorgio Armani ha destato l’interesse del web, mettendo in contrapposizione schiere di detrattori e seguaci di quel grande sconosciuto che circola sotto il nome di buon gusto.

In sintesi il Sunday Times ha pubblicato il pensiero di Armani a proposito di molti omosessuali che commettono l’errore di “vestirsi da gay” e l’opportunità, a suo dire, che “un uomo si vesta da uomo”.

Le esternazioni di Armani a me non paiono né offensive, né tantomeno particolarmente illuminanti, piuttosto mi sembrano fuori dal tempo.  Il tempo che, per un creativo che si occupi di costume, è fondamentale sia quello presente, se non addirittura quello futuro.

Credo che Armani abbia inteso riferirsi a quella schiera di designer che hanno fatto del no-gender la propria bandiera di stile ( e l’ultimo Gucci ne è solo l’esempio più visibile e nemmeno il più interessante). Capisco il suo scarso entusiasmo per la tendenza, ma proprio il tempo in cui si smette di osservare e analizzare con curiosità e apertura il presente, quello in cui il giudizio prende il posto dell’interesse, quello è per me il tempo in cui si finisce fuori dal tempo.  In parole povere è quando si diventa vecchi.

Le sue parole mi ricordano quelle di molti vecchi che iniziano i loro discorsi con la fatidica frase “Ai miei tempi..” Frase che fa immancabilmente stizzire giovani di ogni generazione, giustamente impegnati a vivere e godere il proprio tempo.

C’è un momento per lasciare, e credo sia proprio quello in cui la contemporaneità ci sfugge e ci appare come un nemico (ho già scritto di questo momento e di grandi di nome e di fatto che l’hanno saputo cogliere).  Capisco che sia spiacevole e desti nostalgia riconoscere di non essere più in grado di incidere nel presente, d’altra parte Armani ha però ricevuto riconoscimenti e gratificazioni che basterebbero per più vite e questo non a tutti è concesso.

Non è detto, poi, che lasciare voglia dire necessariamente ritirarsi.  Piuttosto potrebbe voler dire approfittare della propria esperienza per trasmettere conoscenze.

E per dosare parole e presenza.