Il ruolo della moda.

artenfant

Bello.

Da poco mi è tornata in mente un’intervista che feci anni fa a una signora che lavorava nella moda da lungo tempo. Quando le chiesi quale fosse per lei il ruolo della moda, lei mi parlò quasi subito di abiti e poi, ritenendo che moda e abiti fossero un tutt’uno, disse che un abito deve rendere bella una donna, questo è il suo ruolo.

Confesso che al momento non riflettei abbastanza sulla risposta e lasciai correre. Ma questo ricordo mi è tornato in mente proprio ieri, mentre presentavo il nuovo ciclo di laboratori di moda per bambini in una scuola.  E’ davvero solo questo che ci aspettiamo dalla moda?

Quello che mi hanno insegnato i miei giovanissimi allievi è che attraverso gli abiti passa un mondo.  Insieme a loro ci occupiamo di ecologia, facendo nostra costantemente l’abitudine al riciclo. Ci soffermiamo sui segni, le forme e il loro significato; parliamo del tempo, della fatica e dei diversi punti di vista. Da un colore o da un tessuto nascono emozioni e dai disegni traspaiono sogni e speranze.  Tutto questo confluisce nei vestiti che loro pensano e cuciono personalmente.  Direi che l’ultimo dei loro obiettivi è proprio quello di sembrare più belli.

Mi direte che questo succede perchè sono bambini, con gli adulti è un’altra storia.  Allora spostiamo l’attenzione dall’oggetto abito al concetto moda, che era poi la domanda effettiva.  E’ davvero possibile, in una società così variegata e complessa, pensare che la moda abbia esclusivamente o prevalentemente un valore estetico?

Penso agli anni in cui Elsa Schiaparelli disegnava abiti surrealisti, mettendo a nudo pulsioni profonde; penso a tutte le correnti che si sono succedute nella moda: il punk, il grunge, il body conscious degli anni 60′ e poi 80′, il minimalismo (solo per nominarne alcune).  Molte di loro erano attente a qualcosa che era alquanto distante dalla ricerca del bello, eppure quegli abiti li abbiamo indossati tutti.  Penso a tutta la moda brutta prodotta negli ultimi anni, che ha fatto del brutto il proprio campo di ricerca e sperimentazione, analizzando il concetto di cattivo gusto o kitsch e rendendolo persino desiderabile.

La domanda rimane aperta ed è un bene: molte sono le risposte possibili e questo rende tutto interessante.  Quella parte di società che compra gli abiti solo per sentirsi più attraente esiste, lo so.  Però ho come la sensazione che si sia persa una fetta cospicua della storia, del cambiamento.  Naif, questa la parola che mi viene in mente.

Io però sono ottimista.  Mi basta guardare i lavori dei miei piccoli allievi.

 

Il “buon gusto” secondo Diana.

diana 1

diana 2

diana 4

diana 5

diana 6

 

Bello?

“Elsie, naturalmente, aveva un gusto meraviglioso, come tutti quelli che ho conosciuto in Europa. Di certo si nasce con il buon gusto perché è davvero difficile acquisirlo. Si può acquisire la patina del gusto. Ma ciò che Elsie Mendl possedeva era qualcos’altro, che è tipicamente americano: apprezzava la volgarità.  La volgarità è un ingrediente importantissimo nella vita. Credo molto nella volgarità…se esprime vitalità.  Un pizzico di cattivo gusto è come una bella spruzzata di paprika. Abbiamo tutti bisogno di una spruzzata di cattivo gusto; rinvigorisce anima e corpo. Credo che dovremmo usarne di più. E’ alla mancanza assoluta di gusto che sono contraria.

Ciò che attira la mia attenzione in una finestra sono le cose orribili… la robaccia. Anatre di plastica!”

(cit. Diana Vreeland, da D.V.)

 

L’accostamento che fa la Vreeland tra cattivo gusto e volgarità mi sembra interessante. Trovo in lei quel coraggio di osare, anche a costo di sbandare, che manca alla maggior parte dei costruttori o divulgatori di moda odierni.  Tutti presi a rimanere in bilico tra manierismo e audacia (ma controllata).

La volgarità di cui parla Vreeland è vivace, ossia qualcosa di vivo, che trasmette una emozione, un movimento.  Può anche non piacere, ma desta comunque interesse. Si prende il rischio di non piacere, e in effetti a molti non piaceva.

Mi salta subito all’occhio una somiglianza: il termine volgare deriva dal latino vulgaris, derivato di vulgus: volgo, popolo. Ossia popolare. Stessa etimologia di pop (popular).

Vreeland capiva benissimo che quel pizzico di paprika di cui parlava era indispensabile non solo per attrarre l’occhio, ma anche per arrivare dovunque e a chiunque. Non era un discorso elitario il suo.

Provate oggi a dire a qualcuno che i suoi abiti, le sue idee, la sua persona sono volgari..