Visionnaires.

Bello.

Essere againstfashion è un po’ come essere visionari. Richiede una totale mancanza di confini tra il sè corporeo e la propria rappresentazione per il mondo.

L’abito che si indossa è un segno tra i tanti che racchiude questa condizione.  Non è solo un abito, non è solo moda nè superficie; è lo specchio che non smette di rifletterci, l’appendice piana e duttile che asseconda ogni gesto.

E’ stato così da sempre, non è soltanto un’invenzione di stilisti contemporanei o avanguardie concettuali. In realtà a loro è toccato solo scoprire l’acqua calda e mascherare con frasi altisonanti quello che era già lì, pronto e finito.

Essere againstfashion è un’esperienza che può concludersi in un tempo breve, oppure durare una vita intera. Vale la pena sperimentarla, ma non è una passeggiata. Naturalmente richiede una buona dose di sincerità. Questo è l’ingrediente più difficile da reperire. Richiede inoltre fiducia, quasi un lasciarsi andare, praticamente senza rete.

L’abito, poi, viene da sè.

 

Immagini: Daliah Spiegel, Tatiana Leshkina and Erik Hart, Christian Heikoop, Eric Benier Burckel, Bauhaus, Oskar Schlemmer.

Il canto della Sybilla.

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Bello.

Ho un ricordo forte di Sybilla, legato naturalmente agli anni ’80, quando, insieme a Romeo Gigli, rappresentava il simbolo di una moda intimista e romanticamente concettuale. Ricordo bene le volute arrotondate e scultoree dei suoi abiti e cappotti (anche le scarpe a dire il vero). C’è poi ancora il ricordo di un viaggio a Madrid, in cui cercai invano il suo atelier, forse l’indirizzo era sbagliato, forse non cercai abbastanza..

Insomma Sybilla era il mito vestimentario di noi ragazzi di quel decennio che ci sentivamo un po’ alternativi, noi che con l’edonismo reganiano sdegnosamente (e snobisticamente) non volevamo aver nulla a che fare, noi che preferivamo le spalle scivolate piuttosto che le spalline imbottite, il bozzolo piuttosto che la corazza e i non-colori piuttosto che le tinte fluo.  Erano i tempi in cui la Spagna esportava un design di ricerca autentica, pescando nella propria tradizione, invece che nelle collezioni altrui (Zara ancora non esisteva).

A un certo punto Sybilla è sparita. Qualcuno diceva che il confronto con la dimensione industriale fosse stato l’ostacolo insormontabile, per lei che era un’artigiana nell’anima. Ne ho sentito ancora parlare quando qualche anno fa tentò una collaborazione con Roberto Capucci, ma il successivo silenzio mi hanno fatto intendere che non fu un successo.

Ora è tornata con una sua linea tutta nuova. Certo sono lontane le atmosfere e i dettagli di quei lontani anni ’80, tutto si è fatto più asciutto e sintetico, ma qualcosa rimane di uno stile sottilmente poetico.

Le camicie di Ferrè.

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Bello.

Sono tornata a Milano qualche settimana fa per visitare una mostra imperdibile, visto che si trattava di Gianfranco Ferrè.

La mostra si intitolava La camicia bianca secondo me. Gianfranco Ferrè ed era costruita, come si intuisce dal titolo, intorno ad uno dei grandi amori di Ferrè: la camicia bianca. Poiché si tratta di una passione che condivido e di cui ho già scritto e inoltre poiché ho sempre ammirato e apprezzato il lavoro di questo stilista, capite bene che non potevo mancare. Ferrè è uno dei pochi stilisti che non ha disdegnato l’insegnamento, intuendo che la trasmissione dei saperi fosse importante tanto (e forse più) quanto il lavoro creativo sugli abiti. Fu infatti uno dei fondatori della Domus Academy di Milano, dove insegnò fino a quando la maison Dior lo chiamò come direttore creativo. A quel punto gli impegni di lavoro gli impedirono di continuare, ma le sue lezioni sono raccolte in un importante volume: Gianfranco Ferrè – Lezioni di Moda, Marsilio ed.

La camicia bianca rappresenta per me la sintesi perfetta di estetica e funzionalità, un vero e geniale esempio di design e credo che difficilmente sia possibile migliorare questo risultato. Ciononostante Ferrè è riuscito a costruire intorno a questo capo tutto un mondo fatto di interpretazioni, suggestioni, costruzioni sartoriali che, lasciandone intatto il significato concettuale, ne amplificano tuttavia la portata.

L’allestimento della mostra era puro e suggestivo, credo come sarebbe piaciuto al grande stilista/architetto.

Per chi non avesse potuto ammirare di persona la mostra, lascio alle immagini il compito di raccontare questo fantastico viaggio nelle collezioni di Gianfranco Ferrè dal 1982 al 2006.

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Il doppio-senso.

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Brutto?

Ha sfilato da poco a Parigi l’ultima collezione del marchio Jaquemus, disegnato da Simone Porte Jaquemus.

Da quando Martin Margiela si è ritirato, sembra, a vita privata, mancava proprio chi potesse soddisfare le fantasie degli estremisti del concetto.  Eccolo qui questo talento nuovo nuovo, che però ha fatto breccia non tanto per gli abiti (strano, vero?), quanto piuttosto per il trucco delle mannequin, ispirato al lavoro di un artista, Sabastian Bieniek, chiamato Doubleface.

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Un modo come un altro per sviare l’attenzione, per confondere un po’ le idee. Forse un sincero interesse per il mondo dell’arte, o per lanciare il messaggio che nella moda quello che appare non è mai da prendere alla lettera.  Così come i vestiti della sua collezione, che contengono, a ben vedere, qualche spunto interessante.

L’abuso del termine inter-disciplinare ha prodotto schiere di professionisti che si credono dotati del dono dell’ubiquità, oltre che di quello della genialità profusa. La verità è che i geni, capaci di brillare in più campi, sono rari come le stelle comete visibili.  A un certo punto tocca fare una scelta.

Questo non significa smettere di farsi suggestionare o non tentare impossibili collaborazioni; in fondo, da che mondo e mondo arte e moda si sono influenzate a vicenda.

Se solo gli artisti facessero gli artisti e gli stilisti facessero gli stilisti.

 

 

Quel niente che ha un peso.

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Bello.

Una delle collezioni più aeree della New York Fashion Week: Yigal Azrouel.  Abiti che sembrano pesare niente, in cui la precisione della forma è millimetrica e  pulizia sembra la parola d’ordine.  C’è un’altra parola che mi viene in mente guardando la sfilata: semplificazione.  Non mi riferisco tanto al taglio o agli accorgimenti tecnici, quanto piuttosto al mood che aleggia intorno alla donna immaginata da Azrouel: serena, comoda.  Semplificata ma non superficiale.

Ed è un bene che qualche stilista si prenda la briga di pensare ad abiti che si possano indossare quasi senza pensarci, con la sicurezza che tanto non ci faranno sfigurare. Diciamocelo pure che tutta quella moda cerebrale, concettuale o minimalista qualche volta è davvero faticosa.  Non sai mai se è troppo o troppo poco.  Stai lì a chiederti se la tua faccia un po così sarà adatta a quel groviglio tessile o a quel nulla asettico..

Ma basta guardarlo in faccia Yigal, per capire che di uno così ci si può fidare.