Nei sogni delle donne.

 

 

Bello.

C’è chi ha storto il naso quando sulla passerella di Dior per la collezione AW 2017/18 sono comparse le modelle che indossavano quelle tute, che non erano la versione glamour dell’indumento iconico.  No, erano proprio le tute da lavoro che  l’artista futurista Thayaht* aveva inventato già nel 1920. Persino il colore era quello: un blu leggermente stinto, che ricordava i numerosi lavaggi e l’usura.

C’è chi ha immediatamente pensato: -Ma cosa c’entra Dior con quella storia?-  Proprio Dior che per Cocteau era acronimo di Dieu Or, uno dei marchi più lussuosi ed esclusivi, così lontano dal mondo della working class come la luna dal sole.

A ben pensarci c’è voluto un po’ di coraggio a proporre alle esigenti clienti del marchio un indumento che rimanda al lavoro come sussistenza e fatica più fisica che mentale. Certo non quel tipo di lavoro a cui le raffinate signore sono avezze.

Allora mi è venuta voglia di tornare un po’ all’origine di quell’invenzione, e mi sono ricordata che la TuTa non nacque affatto come indumento da lavoro. Thayaht (insieme al fratello RAM) la propose come alternativa al completo classico maschile, ritenuto ingessato e poco moderno. La TuTa rispondeva a criteri di velocità e sintesi: si poteva indossare rapidamente, non necessitava di complicati abbinamenti e permetteva movimenti più dinamici. Insomma era un indumento decisamente più moderno ed è proprio questa caratteristica che ne ha decretato l’enorme successo.

Thayaht aveva già realizzato il modello perfetto e infatti salta subito all’occhio come la versione di Dior sia praticamente la stessa di allora. Quindi cosa c’entra Dior con Thayaht? Io dico che c’entra quel termine citato poco fa: modernità. E’ indubbio che il marchio sotto la guida di Maria Grazia Chiuri (prima donna a rivestire questo ruolo) ha voltato decisamente pagina, e se è vero che solo una donna sa cosa voglia dire indossare indumenti femminili (e di conseguenza cosa vogliono davvero le donne), allora dobbiamo credere che quella tuta sia la cosa giusta al momento giusto.

L’ho già scritto altrove: i sogni delle donne sono cambiati, così come sono cambiate quelle donne che sognavano e ancora sognano. Christian Dior realizzava abiti per signore che facevano vite eccezionali, lontane da problemi contingenti. Quelle donne probabilmente non esistono più.

La tuta del nuovo corso di Dior a me sembra un capo desiderabile. Mi metto nei panni di ogni donna che lavora, si sposta, vive tra impegni vari e quei panni sono proprio perfetti se hanno la forma di una tuta. Tutto qui.

*(Thayaht era in realtà il nome d’arte di Ernesto Michahelles, fiorentino di nascita ed artista eclettico, tra l’altro unico esempio di artista futurista che collaborò attivamente con l’haute couture: indimenticabile il suo lungo sodalizio con Madeleine Vionnet).

P.S. Per la conaca: ho ricevuto i complimenti per l’articolo dal nipote di Thayaht, nonchè figlio di RAM. Complimenti graditissimi!

E Miuccia parlò.

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http://video.d.repubblica.it/moda/miuccia-prada-il-mio-mondo-libero/3969/4106?ref=fbpd

 

Brutto?

Resto dell’idea che un’opera d’arte o di creatività, che sia espressamente visiva, se spiegata da chi l’ha ideata, perde di forza. Tanto varrebbe allora non realizzarla e pubblicare piuttosto un trattato sull’intenzione, un racconto sulla visione di qualcosa che è solo nell’immaginazione. Quello che di solito fanno gli scrittori e che è appunto il mestiere di scrivere.

Sarò sincera, a leggere l’intervista a Miuccia Prada mi sono annoiata, e ancora di più ad ascoltare dalla sua viva voce il racconto della sua vita tutt’altro che appassionante.  Al di là dei gusti personali, trovo comunque più interessante guardare i suoi abiti.

Quale epopea potrà mai suggerire il percorso di una borghese benestante il cui massimo atto di coraggio è stato quello di frequentare in età giovanile i circoli di sinistra? Credo che dovremmo tutti darci un taglio sull’interpretazione dei termini: coraggio è un’altra cosa.

Un altro termine che ricorre insistentemente nei discorsi di Prada è intellettuale e anche qui noto che l’interpretazione è soggettiva. Ma non posso evitare di sorridere ogni volta che il fare moda in un contesto commerciale è abbinato a questo termine.

Poi c’è la parola che più di tutte ultimamente merita il podio: borghesia.  A quanto pare ci si è dimenticati davvero da dove arrivi questa classe sociale. Napoleone Bonaparte fece di tutto per far si che la colta aristocrazia infondesse un minimo di buon gusto in quei parvenu che si erano arricchiti dall’oggi al domani con traffici e speculazioni durante e dopo la rivoluzione francese. Diciamo pure che borghese non era proprio sinonimo di raffinato. Poi la storia ha fatto il suo corso e dal cinema abbiamo altri rimandi: mi vengono in mente titoli come Un borghese piccolo piccolo o Il fascino discreto della borghesia, e anche in questi casi il termine non ne esce bene.

Però c’è insistentemente qualcuno che vuol farci credere che invece no, che questa attitudine borghese è ormai il massimo di quel portamento cool diventato obbligatorio negli ambienti giusti.

E poi c’è la questione del brutto che Prada si vanta di aver sdoganato nell’unico ambiente in cui ancora non era stato fatto: la moda. E c’è da chiedersi perché non fosse stato fatto?  Conoscete qualcuno il cui desiderio sia quello di comprare abiti brutti?

Qui non si tratta di perorare necessariamente la causa della moda sexy o pretty, quanto piuttosto di considerare che quando si vestono, le persone tendono naturalmente a voler migliorare il loro aspetto fisico. A prescindere dal fatto che poi ci riescano o meno.

D’altra parte penso che Prada abbia piuttosto imparato alla lettera la lezione di Diana Vreeland, quando diceva di aggiungere un tocco kitsch al suo stile per dare più forza a tutto il resto. Tutto qui.

Insomma, io non mi sforzerei, come fanno in troppi, a vivisezionare queste perle di understatement, che a furia di essere analizzate, stanno diventando quello che non vorrebbero mai essere: dei puri e semplici clichè. Alla faccia di chi afferma che la signora ha sbaragliato tutti i cliché.

Una storia di passione e Joy – Jean Patou.

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Bello.

Jean Patou era un uomo raffinato e audace, tanto audace da lanciare nel 1929, in piena crisi economica (ricordiamo il crollo di Wall Street) il profumo più caro del mondo: “Joy”. E già il nome era un manifesto contro l’abbattimento e il pessimismo generale.

Non aveva torto, e il successo strepitoso di quel profumo, che dura ancora oggi, lo conferma. Non che rischiasse poco, visti i tempi che correvano, ma rischiò. Rischiò di nuovo quando nel 1931 propose il primo profumo unisex: “Le Sien”, per uomini e donne che amavano correre a grande velocità. Pensate con quanto anticipo immaginò questo tipo di parità..

Patou creava vestiti che si adattavano alle persone e non il contrario. Inventò lo sportwear per le donne che finalmente potevano non solo muoversi comodamente, ma addirittura fare sport.  Erano suoi gli abiti con cui nel 1919 Susanne Lenglen vinse il torneo di Wimbledon, scandalizzando i benpensanti, perché il gonnellino così corto non lasciava molto spazio alla fantasia.

Era amico di Chanel (forse l’unico tra i couturier dell’epoca), non c’è da stupirsi, parlavano la stessa lingua. Quello che stupisce piuttosto è quanto un uomo abbia potuto immaginare quello di cui le donne avevano davvero bisogno, mettendosi letteralmente nei loro panni.

La storia ci suggerisce lezioni da tenere a mente. Ci indica possibili modelli di cui fare tesoro e soprattutto nei periodi di crisi ci insegna che l’immobilismo non è affatto una buona idea. Il coraggio e il talento possono fare la differenza.

Elsa in the wind.

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11 - 1938

Bello.

Negli ultimi anni i riferimenti a Elsa Schiaparelli si sono fatti via via più numerosi e insistenti. Complice anche la più volte annunciata riesumazione del marchio, ma non solo. Evidentemente l’accostamento, anche solo di sfuggita, con un nome così pieno di carisma e contenuti, fa gola a molti. E si sa, gli avvoltoi sono sempre pronti quando c’è un boccone in vista..

Di quel disgraziato abbinamento o conversazione impossibile con Prada ho già parlato. Pure ho già scritto di quel tentativo mal riuscito di rispolverare qualche reminiscenza, complice un Lacroix non proprio in forma.  Le ultime notizie sono di uno Zanini all’opera per tentare una mission (possible?) quantomai ardua.

Tutti questi scivoloni o fallimenti mi fanno immaginare che ci sia un elemento clamorosamente mancante in queste storie: la conoscenza.  Siamo davvero sicuri che tutti coloro che si occupano di un sistema così fluttuante come quello della moda abbiano concreta conoscenza di ciò che vanno a trattare? In fondo Elsa Schiaparelli rimane uno dei nomi della storia della moda meno conosciuti, se non per due o tre cose che passano di bocca in bocca. Eppure è una tra i pochi ad aver scritto persino una autobiografia.

Tra l’altro è una lettura che consiglio a chiunque, perché non parla solo di moda, ma svela alcuni dei lati più intimi di una donna che ha vissuto intensamente il suo tempo.

La moda della Schiap rimane legata alla sua persona e al suo modo di concepirla, ma anche al suo tempo, che la mise di fronte a scelte non facili. E’ possibile dire che lei fu la prima a regalare alle donne la consapevolezza che con gli abiti potevano finalmente mostrare una personalità, che i loro corpi parlavano un linguaggio più articolato della semplice appartenenza di genere. Essere donne pensanti non era affatto scontato negli anni ’30:

Ho sempre invidiato (agli uomini) il fatto di poter uscire da soli a qualunque ora. Vagare senza meta per tutta la notte o stare seduti in un caffè senza far nulla sono privilegi che possono sembrare di nessuna importanza, ma che in realtà danno alla vita un sapore molto più intenso e sofisticato.

Se Chanel e Vionnet avevano liberato il corpo e i tessuti, lei fece un ulteriore passo in avanti e mise mano alla liberazione del significato di un abito, della sua interazione con la sfera dei sogni, dell’inconscio. Per fare questo si servì dell’arte, ma in un modo che è ben lontano da molti degli esperimenti (più che altro commerciali) attuali.

La Schiaparelli ragionava come un’artista, pur consapevole che quegli abiti erano comunque destinati a vestire il quotidiano. Un’alchimia che ha dell’incredibile, forse possibile allora anche grazie ad un momento storico irripetibile, forse, semplicemente, il frutto di una mente e di una creatività al di fuori da ogni schema. Tanto superiore da permetterle di capire anche quando lasciare:

Quando il vento ti prende il cappello e te lo porta via, sfidandoti a inseguirlo sempre più lontano, tu devi correre più veloce del vento se vuoi recuperarlo. Capii allora che per costruire con maggiore solidità, a volte si è costretti a distruggere. Che bisogna imparare a parlare la lingua di chi non capisce la differenza tra carne da macello e carne umana..

Pensando a tutto questo, mi accorsi che si era chiuso un cerchio e che non potevo proseguire per la stessa strada senza diventare una schiava; che dovevo allontanarmi da Place Vendome, alle cui tiranniche esigenze ero ormai soggiogata, e che avevo bisogno di un cambiamento radicale.

Una lezione imperdibile per tutti quelli che si avvicinano o che sono già da tempo alle prese con la moda. Prima ancora di accostarsi a questo nome, prima di riempirsi la bocca con nomi che finiscono con il rappresentare solo la smania di rubare qua e là briciole di storia.

Una lezione che non ammette i protagonismi dei personaggi, bensì il coraggio delle persone.

Bottega Veneta: quel fascino discreto della borghesia.

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Bello?

Bottega Veneta collezione SS 2014 firmata dal direttore creativo Tomas Maier.  Una collezione tutta giocata sulla quantità di tessuto e sulle possibilità decorative del tessuto stesso, lasciato solo protagonista, senza l’aggiunta cioè di elementi distrattivi.

Il catalogo è pieno: ruches, volant, plissé, drappeggi, sovrapposizioni.  Il risultato non sempre è all’altezza delle aspettative: gli abiti a volte appaiono spiacevolmente rigidi, complice anche la lunghezza a metà polpaccio che rende tutto più pesante. Dove la lunghezza non va al di sotto del ginocchio, l’abito in effetti si alleggerisce e consente anche giochi di strati più esasperati.

Il richiamo a un certo aplomb borghese è lampante, come del resto sembra chiaro il target del marchio. Quello che non mi convince fino in fondo è l’atteggiamento a metà strada tra una signora classica (vedi gli accessori e l’immagine fisica) e il desiderio di sovra-costruzione che vorrebbe essere un po sperimentale, ma giusto un po.

Il ricorso all’immagine della signora di una certa classe (anche sociale), che morde il freno della modernità mi appare già un poco usurato e noto che qualche volta sprigiona anche una discreta antipatia. Di questi tempi sempre più difficile sembra il ricorso alla scusa che solo se ci sei nata appari ‘in quel certo modo’.  Molte, troppe sono le eccezioni evidenti.

Allora credo sarebbe più gradevole non usare troppi ‘vorrei ma non oso’.  E infondere maggiore coraggio anche nei vestiti.