Perchè tutti adorano Iris Apfel?

iris apfel

Brutto?

Tutti dicono di amarla, la portano come esempio di vera trasgressione e stile ultra-personale in una società che ha fatto della negazione della vecchiaia il suo vessillo.

Lei sorride un po’ svagata e un po’ sorniona; presta il suo volto alla pubblicità e si permette stravaganze estetiche che le sono perdonate, tutte.

La sua vecchiaia è diventata la sua filosofia.

E’ paradossale che proprio lei sia diventata un’icona del lifestyle contemporaneo, in questo tempo in cui il vero tabù è proprio la vecchiaia.

Ma piace.

Piace perchè è l’alibi perfetto per fingere di sentirsi in pace con il tempo che passa. E’ l’effetto catartico.

C’è una dose di ipocrisia in tutto questo, che viene naturalmente raccolta e condivisa, mentre non è affatto naturale che lo sia. Perlopiù non accettiamo di invecchiare e ci facciamo complici di un mercato della moda (e non solo) che manda in giro modelli sempre più giovani, pur sapendo che lo zoccolo duro dei consumatori è costituito da persone di un’età più matura.

Facciamo un po’ tutti finta di credere che sia bello avere quegli anni, basta mettersi addosso un mucchio di autentico stile che copra anche gli acciacchi. In realtà vorremmo tanto assomigliare ai Rolling Stones, paladini di quel no-age che imperversa dovunque.

Iris Apfel è il nostro santino. Ci permette di credere al miracolo: che anche vicino alla fine, in fondo non è mai finita…

 

Cucito sul corpo (la prima brezza di Settembre).

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Bello.

Può darsi che il fine di ogni moda sia quello di cucirsi addosso la sostanza del desiderio. Altrimenti che senso avrebbe questa mania del tatuaggio che contagia sempre più persone?

E’ certo che dimostrare attraverso il corpo chi si è, rassicura, calma l’ansia di esistere per se stessi. Invece di porsi domande, si fornisce una risposta rapida.

E l’abito continua ad essere ciò che è sempre stato: non un riparo dal freddo, dagli sguardi, bensì la pelle che si desidera avere.

(Immagini: Ana Teresa Barboza).

The imaginary fashion.

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Bello.

Paper dresses, ossia manipolazioni della carta per creare visioni di moda immaginata (o immaginaria).

Visioni necessarie oggi più che mai, per ristabilire quell’indispensabile collegamento con il concetto di abito inteso come il luogo abitato dal corpo.  Ed è in questo senso che è proprio il corpo stesso che immagina, attraverso le mani, ma non solo.

Nascono abiti materici, condensato di sensazioni tattili innanzitutto.

Non si può escludere che anche il corpo persegua una sua idea di fantasia, istintiva, immediata. Non meno convincente di quell’altra che è frutto del pensiero.

Le Muse sono tra noi.

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Bello.

Tempo fa ho partecipato con molto piacere a un progetto di Mario Vespasiani sul tema delle Muse nell’arte, ma con un ampio respiro che comprende la musica, la letteratura e anche la moda. Il mio apporto era una riflessione su di un tema che mi ha sempre affascinato e incuriosito e che è poi stata inserita in questo bel volume di fotografie realizzate dall’artista.  Foto che ritraggono la sua musa: Mara.

Si potrebbe dire che Mara è per Mario un doppio, tanto ben riuscito al punto che io riesco a percepire persino una sorta di somiglianza fisica tra di loro. Mara è la parte femminile che completa l’unità ideale verso cui tendere, molto più di un’ispirazione.

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Il libro indaga, attraverso le immagini, tutte in bianco/nero, le innumerevoli sfaccettature di una Musa, che misteriosamente è in grado di apparire sempre diversa pur rimanendo fedele a se stessa.  L’artista sperimenta attraverso la sua Musa un’alterità che solo a tratti si fa avvicinare. E questo eterno rito di avvicinamento e allontanamento risulta infine la parte affascinante del processo. Mutevole e quindi sempre nuovo.

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Ringrazio Mario Vespasiani, che con fiducia ha messo a nudo un percorso personale e suggestivo, regalandoci immagini sincere, profondamente intime.

The man I wish – 2

missoni 2015

missoni 2015 2

Bello.

Ammetto senza alcun senso di colpa che delle sfilate moda uomo me ne sto moderatamente infischiando. In fondo quel poco che mi è capitato di vedere mi da l’idea che niente di nuovo stia succedendo sotto il cielo: solite tipologie di adolescenti imberbi e gracilini fino al limite del bruttarello. Corpi esteticamente evanescenti, tanto da scomparire quasi dentro agli abiti.  Sembra che non sia chic l’uomo avvenente. Gli abiti poi, simulano l’eterna indecisione tra il super-classico sartoriale e la neo-boheme borghese e annoiata.

Ma da Missoni no. Qui il pettorale ha diritto di mostrarsi e gli abiti, che se pure non brillano per originalità, perlomeno non provocano sbadigli.

 

Ricordo di una falena.

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madre_XVIII

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madre_XXIX

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Bello.

Si chiama Eleonora Manca l’autrice di queste splendide foto che fanno parte di una personale visitabile fino al 16 maggio presso la Galleria Paolo Tonin di Torino dal titolo suggestivo: Chrysalis Room _ Solo Show.

La presenza della falena – una mia ossessione attuale – non è l’unico motivo che mi ha spinta a visitare la mostra e incontrare Eleonora.  Avverto nel suo lavoro la presenza di un dolore lento e profondo, ma al tempo stesso quieto. Direi necessario. Le immagini sono rarefatte, ma svelano comunque una visione lucida.  La trasformazione che documentano le sue foto rappresenta la vita stessa, l’evoluzione presente in ogni singolo respiro e la consapevolezza che il dolore sia conseguenza costruttiva, anche se scomoda.

La riflessione su di una inevitabile trasformazione è rappresentata da un bozzolo, che è l’inizio o il continuum di una storia ciclica, e da una falena che si sbriciola come pulviscolo nella luce. La falena parrebbe rappresentare la fine; in realtà non c’è fine, solo una successiva trasformazione.

Il corpo è trattato come strumento per raggiungere una consapevolezza interiore, non ci sono vestiti nè orpelli, solo la pelle: il vestito primordiale. Ma anche la pelle può mutare, credo che questo sia il messaggio simbolico.

La forma del tempo nuovo.

0039-1929

0040-1929

Bello.

Ho amato da sempre questo abito, è di Madeleine Vionnet, datato 1929, l’anno del crollo della borsa di Wall Street. Un anno cruciale, in cui la povertà di lusso di Chanel cominciò ad andare stretta. Coloro che, nonostante la crisi, continuavano ad essere ricchi, non desideravano mettere in piazza la loro fortuna (da veri puritani), d’altronde non volevano nemmeno apparire come quelli che la ricchezza l’avevano repentinamente perduta.

La moda aveva bisogno di cambiare ancora. Chanel cercò un compromesso arricchendo i suoi abiti con cascate di gioielli falsi o veri, mischiati, così da confondere le idee.  Vionnet non era fatta per i compromessi, cercò, come al solito, il suo punto di vista più autentico.

Questo abito, secondo me, ne è la prova: semplicemente lussuoso. Ma è un lusso nuovo, non c’è nulla che luccica, c’è una cognizione del corpo che è prepotentemente dinamica e allo stesso tempo sensuale.

Significa che il rapporto corpo-movimento-bellezza è compiuto.

Sylvio Giardina: tra innovazione e classicità.

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sylvio giardina the hip dress 1                                                       The Hip Dress – tribute to Elsa Schiaparelli

Bello.

Sylvio Giardina è uno stilista nato a Parigi ma con origini e formazione italiana. Formato alla scuola dell’alta moda romana: Gattinoni per la precisione, e queste sono esperienze che rimangono nel dna. Ma, come ho scritto più volte, l’alta moda non è completa là dove non c’è innovazione e sperimentazione e gli abiti di Giardina sono interessanti proprio perché scelgono la strada più difficile: quella della tensione verso il versante artistico.

Mischiare arte e moda è sempre una scelta azzardata, si cammina sul filo di lama: basta un niente per trasformare gli abiti in oggetti da museo o, al contrario, trasformare l’intento artistico in poca cosa. Ma non è questo il caso di Giardina, qui sembra che la scommessa sia vinta, siglata dall’affermazione: l’arte è l’ispirazione, la moda lo strumento.

Gli abiti che compongono l’ultima collezione sono dinamici, mescolano i consueti elementi sinuosi con pattern lucidi e tecnici. Tentano di trovare una nuova forma corporea, ma al contempo non negano il supporto; sembra quasi che in questo gioco di negazione e affermazione, mettano in luce una nuova plasticità.

Ma la cosa che più sorprende, dopo tutta questa complessità, è la semplicità con cui si immagina possano essere indossati.

Insomma abiti che dialogano con il corpo, in cerca di un equilibrio tanto difficile quanto infine possibile.

Vionnet o della semplicità.

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Bello.

Questo è uno dei primi modelli in sbieco realizzati da Madeleine Vionnet risalente agli anni ’20.

Il sogno della couturier era un abito con una sola cucitura e con questo abito ci andò abbastanza vicina (4 cuciture: centro davanti, centro dietro e fianchi).   Hussein Chalayan deve aver tenuto presente la semplicità quasi elementare di questo modello per le prime uscite del defilè in cui esordisce alla direzione artistica per l’alta moda di Vionnet.  Semplicità non vuol dire necessariamente poca sostanza, a volte occorre una certa dose di coraggio per non farsi abbagliare dalla smania di aggiungere.

Madeleine Vionnet era regina indiscussa della tecnica sartoriale, una delle ultime vere inventrici in fatto di forma e lavorazione sartoriale. Talmente colta da essere in grado di applicare la matematica alla sartoria: sezione aurea, spirale logaritmica.  Per questi ed altri motivi ho trovato molto appropriata la scelta di Chalayan alla guida di questa storica maison. Lui che ha sperimentato forme in movimento, abiti trasformisti e materiali del futuro.

Ecco alcuni outfit della collezione:

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Semplicità, dicevo; a qualcuno potrà apparire una moda spoglia, vista anche la scelta dei colori. Credo che questi abiti abbiano bisogno di una visione in movimento, solo così ottengono il risultato che immagino di intuire: confondersi con il corpo, diventare un tutt’uno con il corpo. Anche in questo caso mi torna in mente un’altra immagine del passato: quella di Isadora Duncan che danza seminuda, non a caso una delle grandi estimatrici e clienti di Madeleine Vionnet.

Penso che Chalayan abbia lavorato molto sotto un profilo prettamente culturale piuttosto che formale. Il risultato non è immediatamente percepibile, e anche in questo si avvicina molto alla fondatrice del marchio, i cui abiti spesso erano difficili da capire a una prima occhiata. Bisognava indossarli per rendersi conto di quanto in realtà fosse complesso e innovativo il lavoro sotterraneo da cui nascevano.

L’alta moda è frutto di ingegno e dettagli che si proiettano all’infinito verso la perfezione, solo così ha senso. Sono convinta che osservare un abito da vicino sia quasi l’unico modo per coglierne il vero valore: ci sono lavorazioni che richiedono competenze o un occhio allenato. Il lusso contemporaneo è in questo senso molto diverso dal passato, dove spiccavano i metraggi di tessuto e la vastità dei ricami.

Il vero lusso di questa alta moda è un vero ossimoro: la semplicità delle cose complesse.