Sulla nave del vincitore.

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Brutto?

Una domanda mi sorge molto spontanea: ma se i costumi di Achille Lauro li avessero proposti, che so, Dolce&Gabbana o, un altro nome a caso, Rocco Barocco (ne avrei anche altri, sia chiaro) invece che Alessandro Michele di Gucci, il risultato mediatico sarebbe stato lo stesso?

Voi direte, non sarebbero stati quelli. Probabile. Ma mettiamo il caso che tutta quella genialità invece fosse stata il frutto di un estemporaneo stylist sconosciuto (e ce ne sono di sicuro), avreste osannato il gesto allo stesso modo? Siate sinceri.

Io non ho trovato alcun motivo particolare per stupirmi, emozionarmi o disgustarmi, nè per il gesto e tanto meno per il messaggio.  Ho provato un’unica emozione durante l’esibizione della cover di Mia Martini. In quel contesto gli abiti facevano da sfondo adeguato a un testo e musica bellissimi e alla magnifica voce di Annalisa. Ma credo che mi sarei emozionata anche se gli abiti fossero stati altri, forse un poco di meno, chissà.

Uno dei pregiudizi della moda è purtroppo quello di dare un nome e cognome al talento e da qui darlo per scontato, mentre in realtà se di vero talento si tratta, allora non ha bisogno di etichette.

P.s. E comunque il mantello nero ricamato in oro della prima serata era stupendo e vederlo abbandonato e dimenticato per terra come uno straccio anche ben oltre l’esibizione, mi ha dato una stretta al cuore.

Oh man! (Da Oscar).

 

Bello.

Questi sono alcuni degli abiti indossati da Mahershala Ali nel bel film Green Book, vincitore dell’Oscar 2019 come miglior film. La costumista del film è Betsy Heimann e così racconta la costruzione del look:

“Vestire Ali nel ruolo dell’elegante e benestante Shirley, che aveva costumi diversi in quasi ogni scena, è stata un’impresa grandiosa. “La prima cosa che ho fatto è stato cercare Don Shirley su iTunes per ascoltare la sua musica”, dice. “Ho scaricato tutte le copertine degli album e ho visto che era un ragazzo alla moda che indossava smoking, cappotti lunghi e casacche. Dr. Shirley era sempre molto composto, anche in abbigliamento casual. Ho trovato la sua foto con una tunica africana, per questo siamo stati in grado di ricrearla per una scena. Mahershala ed io siamo andati a pranzo insieme e abbiamo parlato molto e condiviso le ricerche che entrambi avevamo fatto. Lui era emozionato e mi sono emozionata anche io, è stato un bellissimo momento con lui”.

Tutti gli abiti sono raffinati, ma ancora più evidente è l’eleganza innata con cui li indossa l’attore.

E in questo caso, bando alle ciance e alla faccia della retorica: la classe non è acqua!

Gente di Hollywood.

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Bello.

Gilbert Adrian, 1945.

Più noto con il solo nome di Adrian, fu il costumista più acclamato di Hollywood negli anni ’30 e ’40.  Inventò il personaggio da femme fatale di Greta Garbo e attraverso i costumi per Joan Crawford lanciò la moda delle spalline imbottite.  Vestì star come Jean Harlow e Katharine Hepburn e si sbizzarrì con costumi sontuosi, a volte eccentrici, ma sempre coerenti con lo spirito di Hollywood, dove, come si leggeva sul “The New Yorker”, quando si mette in scena una signora, si fa in modo che si presenti come se ce ne fossero due.

La moda racconta la televisione.

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Bello..

A Palazzo Madama, Torino c’è una mostra che sembrerebbe interessante: 1924 -2014 La RAI racconta l’Italia. Un racconto che passa attraverso gli abiti di scena di trasmissioni ormai storiche, varietà, balletti, festival di Sanremo.

La prima sala che accoglie i visitatori è decisamente un bel colpo d’occhio: sono in mostra quattro spettacolari abiti neri indossati da Mina e creati da Piero Gherardi.

Il resto della mostra (una quarantina di capi) staziona in giro per le sale tra mobili antichi e oggetti relativi ad un’altra mostra in contemporanea, senza che ci sia alcun legame tra le due esposizioni.  Questo inoltre consente agli organizzatori di pretendere un biglietto niente affatto a buon mercato: 12 euri.

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Peccato, perché l’argomento ritengo che avrebbe meritato un respiro ben più ampio e un approfondimento anche attraverso foto di scena, video di repertorio e scritti esplicativi decisamente più documentati.

Djagilev, Nijinsky, Poiret: sete, splendori e miseria..

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Bello.

Mi è capitata tra le mani questa bellissima seta vintage, con cui realizzerò un tubino su misura, e immediatamente ho pensato ai Ballets Russes di Djagilev.

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Subito dopo, in automatico, mi è tornata in mente la descrizione della festa più spettacolare di tutti i tempi, quella tenutasi il 24 Giugno 1911 nel giardino della Maison Poiret: La Féte de la Mille et Deuxième Nuit (La Festa della Milleduesima Notte).

Nella sua autobiografia – Vestendo la Belle Époque – Paul Poiret fa una descrizione dettagliata di questo evento, che fu indimenticabile per tutti quelli che ebbero la fortuna di parteciparvi.

La descrizione prende intere pagine. Fu per il couturier, all’apice del successo, la realizzazione di un sogno personale, anzi la messa in scena della sua immaginazione più sfrenata:  ‘Avevo riunito molti artisti e avevo messo i miei mezzi a loro disposizione per realizzare un insieme che nessuno aveva mai potuto creare fino ad allora..’

Durante la festa fu rappresentato un Oriente misterioso e idealizzato, in cui naturalmente il sultano assoluto era proprio lo stesso Poiret e la sua favorita la giovane e bellissima moglie, Denise Boulet.

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Gli ospiti vennero forniti di abiti persiani autentici, per non rovinare l’atmosfera della festa. C’erano fontane che sembravano sorgere da tappeti antichi, c’erano cantastorie che raccontavano brani dalle Mille e una Notte, i viali erano cosparsi di sabbia del deserto e vi passeggiavano animali esotici.

“Alcuni alberi erano coperti di frutti luminosi blu scuri, altri portavano bacche luminose viola (…) In un angolo c’era la baracca della maga, che portava dei diamanti incastonati nei denti (…) Ed ecco il bar delle tenebre, in cui solo i liquori erano luminosi..”

Durante la festa le sorprese si susseguirono a un ritmo incalzante: danzatrici orientali, mercanti che inscenavano compra-vendite, un finto incendio culminato in fuochi d’artificio, suonatori di cetra, cuochi indù che preparavano cibi della loro cucina con ingredienti fatti arrivare per l’occasione.  E poi incensi e mirra fatti bruciare da servitori di colore, piramidi di cuscini orientali, una gabbia dorata abitata da odalische..

Poiret non badò a spese, come al solito. Usò il suo denaro così come faceva con l’immaginazione: senza freni. Un uso magnifico e rischioso che lo portò dagli splendori della Belle Époque allo spegnersi solo e in miseria nel 1944. Non se ne accorse quasi nessuno, un solo giornalista era presente al suo funerale, Lucien François, e così scrisse:

..un uomo non può, come Poiret ha fatto, dedicare la sua vita ad esaltare il prestigio del lusso in una città che vive di lusso e ne ricava tesori; un uomo non può, come Poiret, essere stato colui cui tanti artisti, sarti, industriali tessili, profumieri, devono indirettamente parte della loro fortuna; un uomo non può essere Poiret e morire in tale desolata miseria”.