Dalla parte dell’alchimista (quando la moda è ricerca).

Bello.

Si chiama Vanessa Schindler, è svizzera, ha 29 anni ed è stata la vincitrice del Festival di Hyères.  La caratteristica che ha reso subito unico il suo lavoro, è la capacità di sperimentare con i materiali e grazie a questo anche con le forme.

Si è inventata una tecnica, ha provato e riprovato per anni e infine ha ottenuto qualcosa che non si era ancora mai visto. Quindi quando vi dicono che ormai tutto è stato inventato, non credetegli.

Vanessa ha scovato una sostanza che si chiama uretano polimero fluido che trattata a dovere si può spalmare sui tessuti inglobandoli, unendoli e creando effetti di luce sorprendenti.

Lei dice: “Ci è voluto del tempo, ma è il modo migliore per ottenere dei risultati. La moda va troppo veloce, a volte mi fa paura”.

Un piccolo appunto per tutti quelli che pensano che correre sia l’unica risposta.

Visionari. 5

Bello.

Andrè Perugia, un genio ancora tutto da scoprire.

Letteralmente scoperto da Paul Poiret, ha lavorato per molti dei grandi nomi della couture, brevettando modelli che ancora oggi risultano incredibilmente moderni, realizzando capolavori a metà strada tra arte e altissimo design. Copiato da molti (e spesso senza nemmeno essere menzionato), ha concluso il suo lavoro nel 1970.

Il modello in alto a destra risale al 1953, si chiama hommage à Picasso. Se non sono visioni queste…

Per notizie sulla sua biografia vi rimando a questo sito che mi sembra abbastanza dettagliato:

http://www.thehistorialist.com/p/andre-perugia-dossier.html

 

Euphoria!

Bello?

Si chiama Euphoria la mia ultima collezione di gioielli contemporanei. Un nome adatto, mi sembrava, per questi tempi.

Perchè l’euforia è proprio quello che più mi manca. La capacità e la possibilità di ridere quasi per niente, quella magnifica ebrezza che ti trascina via senza una logica.

Siamo troppo spesso pensierosi, talvolta cupi, nel migliore dei casi realisti. Questo ci tocca ora. Ci sembra che ridere sia un affronto a tutte le tragedie a cui assistiamo da semplici spettatori del mondo, ci censuriamo, stiamo attenti a non strafare.  Invece ridere ci servirebbe da antidoto, perchè il mondo probabilmente ha da sempre la stessa percentuale di infelicità. Semplicemente adesso è più facile che ci venga mostrata.

Allora l’euforia salvifica è come un vento che spazza via la nube. Per questo ho amato le frange, che si muovono con il vento o con il movimento del corpo. Qualcosa che vive, che muta e respira.  Qualcosa che assomiglia a una risata.

 

Jewels: Adriana Delfino (info@adrianadelfino.com)

Model: Sara Capello

Ph.:   A.d.A. photo

Robert Piguet:la semplificazione del lusso.

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1930

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1940

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1951

 

Bello.

Robert Piguet era svizzero di origine, ma, negli anni trenta e anche dopo, veniva definito come lo stilista più parigino dei parigini.

La sua è una storia lineare: una vocazione precoce, il trasferimento a Parigi, l’apprendistato presso importanti case di moda. Poi l’apertura della propria maison, il successo.  Coniugava con il suo stile due insegnamenti (solo) apparentemente inconciliabili: l’uso del colore opulento appreso da Poiret e la semplificazione e funzionalità appresi da Redfern.

La selezione delle immagini relative alle sue creazioni, mi ha portato a scegliere questi esempi che mi sono sembrati subito notevoli. Si riconosce un approccio singolare, l’uso di tagli sperimentali per quegli anni. A me pare di cogliere anche un sincero amore per il mestiere, che si confermò con la presa di posizione durante l’occupazione nazista a Parigi: così come altre case di moda, si rifiutò di portare la sua moda a Berlino.

Quello che apprezzo in questi abiti è la semplificazione del lusso. La mano del couturier è innegabile, ma dietro si intuisce la presenza del designer. Un passo avanti non indifferente.

Nella biografia di Piguet sembra non esserci spazio per il narcisismo che affligge e affliggeva molti couturier: lasciò grande spazio ai giovani collaboratori, formandoli e accogliendo le loro idee.  Collaboratori come Dior, Hubert de Givenchy, Balmain.

Ogni volta che mi avvicino a questi grandi nomi provo a immaginare cosa sia stato per loro il cambiamento radicale di prospettiva creato dalla guerra. Credo che ci sia voluto uno sforzo di volontà notevole per continuare a pensare alla bellezza in un mondo piombato nel lutto.

Piguet si spense nel 1953. Nel 1951 aveva chiuso l’attività, in fondo lavorò fino quasi alla fine.  La dedizione al mestiere è il tratto che ritrovo in tutta questa generazione di creatori di moda. Una cosa semplice, lineare, un valore che ottimisticamente credo che diventerà di nuovo di moda.

Le mille e una fiere della vanità.

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Bello?

Si è appena concluso un fine settimana densissimo a Torino, in termini di arte e design. Sembra che tutti siano venuti da queste parti per dire almeno di esserci stati. Hanno guardato frettolosamente qualcosa e poi se ne sono andati velocemente, così come erano arrivati. Di solito quel qualcosa si chiamava Artissima (certo che venire a Torino solo per vedere questa fiera è davvero impensabile..).

Io invece quest’anno Artissima me lo sono persa; che se la sorbiscano i soliti presenzialisti.  Che noia questo salone che non mi riserva più alcuna emozione, ma solo un gran mal di testa!

Ho partecipato invece a un workshop a Operae. Il workshop era interessante, mentre la rassegna molto meno. C’è in giro troppa fame di auto-affermazione e troppe poche idee utili: ma il design non doveva servire innanzitutto a soddisfare bisogni reali? Mi è sembrato di vedere molta arte applicata e poco design, ma allora diamo alla rassegna la definizione giusta. Il che non sarebbe affatto male, visto che un salone dell’arte applicata non lo fa ancora nessuno..

Poi ho fatto un giro a Paratissima, che conferma la propria missione di mettere insieme in maniera confusa e democratica l’alto con il basso, il mercatino del bric-a-brac con l’arte, i dilettanti con i professionisti. Insomma un gran casino.

Tutto questo mi è bastato. Certo mi sarò persa qualche altra interessantissima cosa, ma la città in questa stagione offre visioni meravigliose che non si trovano in luoghi chiusi e ogni tanto bisogna ricordarsi semplicemente di respirare.

 

 

Il lusso pesa pochissimo.

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Bello.

Ferretti, pre- collezioni autunno inverno 2016/17.

Sono questi gli abiti che risiedono nel DNA del marchio, quelli che catturano sempre il primo sguardo. Quelli fatti di niente,  ma un niente talmente denso da costituire tutto ciò di cui avete bisogno per una serata in cui sentirvi belle e allo stesso tempo comodissime. 

So di cosa parlo, da quando ne possiedo uno. Posso sempre contare su quell’abito che pesa come una piuma, ma riesce a seguire la mia figura in modo anatomicamente più che perfetto. Sembra fatto d’aria, in realtà è costruito con grande perizia.

Un altro esempio di ottimo design senza dimenticare l’incanto.

Al Louvre non espongono borsette 2.

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Brutto.

Il mio ultimo articolo sull’artigianato ha fatto nascere (fortunatamente) alcune discussioni, qualche polemica e molto interesse. Di questo sono grata a tutti quelli che hanno dedicato un po’ del loro tempo a leggermi.

Una delle discussioni più accese verteva sulla classica dicotomia artigiano/artista, nonostante io non avessi mai menzionato la parola arte nell’articolo (artigianato artistico non vale, e sarebbe troppo lungo, forse inutile da spiegare).

Sull’argomento in questione ho già scritto.

Ma tanto per fare di nuovo e subito chiarezza, degli stilisti che si sentono però anche artisti io ne ho le tasche piene.  Anche di quelli che guardando l’ennesima prova di perizia tecnica, esclamano estasiati: -Un vero artista!-.

Si, va bene, qualcuno mi dirà che può essere un modo di dire, ma io non ne sono poi così convinta. La confusione è diventata una tale abitudine, che per ogni termine usato spunta subito qualcuno a ricordarti il suo punto di vista in proposito, o meglio, la sua interpretazione.

Allora ribadisco il mio punto di vista. Che è parziale, soggettivo, non assoluto*, confutabile e anche detestabile.  Per me la moda non è arte.

Ecco, ora aspetto rappresaglie sotto forma di distinguo ed eccezioni, oltre a qualche commento stizzito che mi ricorda: -Chi sei tu per deciderlo?-  *(Pregasi ritornare al paragrafo precedente).

Dirò di più, quando un mio collega annunciava pomposamente di volersi dedicare anche a lavori artistici, il più delle volte si rivelavano opere scadenti che nascondevano la frustrazione di non riuscire a produrre design convincente. E l’asino cascava immancabilmente quando al tuo appunto sull’irrazionalità di quel capo, ti veniva prontamente risposto: -Si, ma è voluto: è artistico.-.  Eppure basterebbe non dimenticare MAI che gli abiti sono macchine per vestire.

Forse l’arte, come la beneficienza, in alcuni casi andrebbe fatta in silenzio, per pura necessità personale, lasciando poi ai posteri (o anche solo agli occasionali osservatori) la decisione se si tratti o meno di una espressione veramente artistica.

D’altra parte la professione di designer richiede già un così grande dispendio di tempo e di energie, che mi chiedo davvero come facciate a dedicarvi anche a un impegno così totalizzante come è l’arte.  O forse siete dei geni.

Di questa tempra, nella storia, io ne conosco uno solo. Uno che riusciva ad inventare macchine così complesse e visionarie, oltre che tecnicamente e scientificamente accurate da avere anticipato, e di molto, i tempi. E contemporaneamente ci ha lasciato un’arte che non ammette discussioni se sia o meno arte.

Leonardo da Vinci.

 

(Immagine di Christophe Coppens)

P.s.  Le eccezioni sono sempre possibili.

Goldfingers.

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Bello.

Il regalo più azzeccato di questa lunga estate me lo ha fatto mia suocera. Non so da dove arrivino, nemmeno lei lo sa. Però posso immaginare quante crune di aghi si siano fermate tra quegli avvallamenti. E anche l’intorpidimento che prende al dito medio dopo essere rimasto a lungo chiuso in quella gabbia di metallo. Posso immaginare il tempo passato dall’usura del metallo, schiacciato in alcuni punti: non è più un cerchio perfetto e questo lo rende ancora più affascinante.

Quello che mi dà da pensare è la misura più piccola, appartenuto senz’altro a una bambina, quando era d’obbligo insegnare alle figlie femmine il cucito e il ricamo. Non sono affatto sicura che fosse una cosa saggia.

Un ditale è un magnifico esempio di design. Quelli più moderni sono fatti di silicone, ma io non mi ci trovo bene, non sento lo stesso senso di protezione che mi dà il metallo.

Ci sono persone (perlopiù principianti a ben vedere..) che dicono di non sopportarlo, di non riuscire a cucire con il ditale. Conosco bene il caso, ero anch’io una di loro, molti, molti anni fa. Ma non c’è verso, un lavoro ben fatto non si può fare senza ditale. Qualche volta obbligo i miei allievi a cucire la pelle, giusto per fagli cambiare idea. Non è per sadismo, è che finchè non capisci la funzione delle cose, non ne apprezzi l’utilità.

Il ditale che uso ogni giorno, o quasi, è vecchiotto ma ancora in buono stato. Anche lui di metallo dorato, io lo trovo bello come un gioiello. Confesso che l’ho rubato a mia madre; lei non se n’è accorta, o ha fatto finta di non accorgersene.

Il canto della Sybilla.

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Bello.

Ho un ricordo forte di Sybilla, legato naturalmente agli anni ’80, quando, insieme a Romeo Gigli, rappresentava il simbolo di una moda intimista e romanticamente concettuale. Ricordo bene le volute arrotondate e scultoree dei suoi abiti e cappotti (anche le scarpe a dire il vero). C’è poi ancora il ricordo di un viaggio a Madrid, in cui cercai invano il suo atelier, forse l’indirizzo era sbagliato, forse non cercai abbastanza..

Insomma Sybilla era il mito vestimentario di noi ragazzi di quel decennio che ci sentivamo un po’ alternativi, noi che con l’edonismo reganiano sdegnosamente (e snobisticamente) non volevamo aver nulla a che fare, noi che preferivamo le spalle scivolate piuttosto che le spalline imbottite, il bozzolo piuttosto che la corazza e i non-colori piuttosto che le tinte fluo.  Erano i tempi in cui la Spagna esportava un design di ricerca autentica, pescando nella propria tradizione, invece che nelle collezioni altrui (Zara ancora non esisteva).

A un certo punto Sybilla è sparita. Qualcuno diceva che il confronto con la dimensione industriale fosse stato l’ostacolo insormontabile, per lei che era un’artigiana nell’anima. Ne ho sentito ancora parlare quando qualche anno fa tentò una collaborazione con Roberto Capucci, ma il successivo silenzio mi hanno fatto intendere che non fu un successo.

Ora è tornata con una sua linea tutta nuova. Certo sono lontane le atmosfere e i dettagli di quei lontani anni ’80, tutto si è fatto più asciutto e sintetico, ma qualcosa rimane di uno stile sottilmente poetico.