Storia di una giacca – Il tempo ti fa bella.

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Bello.

In Giappone si chiama kintsugi, ed è una pratica che riguarda gli oggetti che hanno una storia e sui quali il tempo ha prodotto crepe e segni. Noi in Occidente diremmo molto semplicemente che si tratta di oggetti rotti.  Ma quando il tempo diventa un valore anche i suoi effetti sulle cose non sono più imperfezioni, ma la testimonianza di una storia percorsa.

Nelle crepe degli oggetti vissuti, o semplicemente danneggiati, i giapponesi colano dell’oro, proprio per valorizzare con il metallo più prezioso (a volte utilizzano persino platino) quel segno. Non un danno quindi, ma la bellezza dell’imperfezione.

La giacca vintage di paillettes quadrate opache color oro cucite su una base di chiffon di seta ha attratto la mia attenzione proprio perché era perfetta per mettere in pratica il kintsugi: mancavano strisce di paillettes un po’ dovunque, segno che era stata molto vissuta e anche molto amata, credo.  Il restauro avrebbe potuto essere di tipo tradizionale, ossia aggiungere paillettes più o meno simili lì dove mancavano.. L’idea non mi ha nemmeno sfiorata.  Ho cercato delle passamanerie metalliche color oro vintage, preziose proprio perché ormai fuori produzione. Con queste ho ricoperto le zone ‘vissute’.

Il tempo non è passato invano sulla mia giacca.

L’orgoglio italiano (galline alla riscossa).

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Brutto.

Nasce nella rete e si diffonde a macchietta d’olio quello che si autodefinisce ‘italian pride’, a difesa di un ingarbugliato concetto di stile e avanguardia industriale che non contemplano il termine artigianato. Termine ritenuto ormai off..

Stranisce però notare che chi lo propone faccia madornali errori di sintassi. Ma si sa, la fretta, la tastiera del telefonino.. Innumerevoli sono gli alibi.  Ma anche la lingua (italiana) richiede rispetto, non solo lo stile.  Non me ne vogliano i diretti interessati, ma parlare -o scrivere- in una piazza significa anche esporsi volutamente a delle critiche.

L’orgoglio per le proprie radici è cosa sacrosanta, ma riguarda, credo, ogni singola nostra giornata e soprattutto la cura che mettiamo nello stare al mondo.  Parlando di moda, la storia italiana documentata ci racconta di un gusto e un saper fare eccellenti.  Basterebbe che ogni operatore di questo settore ragionasse e agisse solo dopo aver realmente masticato e digerito quella storia.  Credo che allora davvero il cambiamento sarebbe radicale.

In realtà il divario tra le effettive eccellenze (tra cui grandi artigiani, Ferragamo per esempio..) e i troppi finto-esperti è sconsolante.

Dopodiché assistiamo e leggiamo di esempi di grande ignoranza: artigianato scambiato per bric-à-brac, arte applicata questa sconosciuta, fiere paesane che si fregiano di proporre vero artigianato artistico..

Infine, sempre sul tema dell’artigianato, mi irritano molto quelli che pensano che fare il sarto/a significhi produrre abbigliamento di serie B, invece di riflettere sul fatto che probabilmente si tratta di un mestiere -o una specie- che andrebbe protetto, perché depositario di un sapere fondamentale, anche e soprattutto in termini di innovazione. Suona strano, lo so, ma l’innovazione quasi sempre parte dalla tecnica.  Dimenticando anche che sarto/a è la traduzione dal francese di couturier.  Ma quanto suona diversamente questo termine, vero?

Il breve addio. C’est la vie.

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Bello.

Ann Demeulemeester lascia la sua griffe per motivi personali con una lettera vergata a mano.

Jil Sander lascia il suo marchio per motivi personali.

Frida Giannini pensa al suo futuro lontano dalla moda per prendersi cura della sua vita personale.

A me sembra un bel modo di dichiarare al mondo che ci sono cose più importanti della moda e del proprio ruolo nel mondo del lavoro. Siamo prima di tutto persone e il successo, così come la presenza mediatica o tutti gli allettanti benefit del settore non possono farcelo dimenticare.

La cosa più difficile è lasciare quando ancora il successo arride, ma in ogni caso lasciare è appannaggio solo delle menti più lucide. Richiede visione dei limiti e rispetto verso se stessi.  Non sfugge il particolare che a farlo in questo caso siano tre donne.

Il diavolo non veste Gucci.

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Bello.

Leggendo su D la lunga intervista a Frida Giannini (dal 2005 direttore creativo di Gucci), ho sottolineato alcune frasi. Sono andata a rileggerle, perché da subito non mi sembrava vero di poter sentire concetti così semplici e veri, espressi da chi respira tutti i giorni l’aria da opera buffa che soffia nella moda.

Frida Giannini sembra una a cui la vita ha dato molto, ma senza regalarglielo.  Studi e carriera costruiti con rigore certosino, un divorzio alle spalle, una lunga malattia (un carcinoma); neppure la maternità è stata gratis, visto che è arrivata a 41 anni dopo vari tentativi falliti di fecondazione assistita.  Ma il dolore, quando non ti incattivisce, può solo aprirti gli occhi e portarti giusto al centro delle cose.

Si capisce che lei ha fatto tesoro di ogni esperienza, e lo spiega con poche parole precise: la sintesi di chi sa che il tempo che la vita ci concede è prezioso.

Non esiste contrasto tra il bello e il buono, al giorno d’oggi il bello deve andare verso il buono, altrimenti la bellezza diventa superflua.

Non si perde dietro paroloni, non si fa illusioni o sconti.

La rivoluzione l’hanno fatta altri. Gucci è sempre stato poco sperimentale. L’archivio è il punto di partenza e d’arrivo, è la storia e il patrimonio dell’azienda. Il mio compito è proiettarlo verso il futuro.

Cita Tatiana Tolstoj: “L’eleganza è una cosa fredda, non si consuma, si contempla”.

E infine parla del suo futuro, e ne parla così:

Non penso che starò ancora molto in circolazione, credo nel ricambio generazionale, presto arriverà qualcuno più bravo di me. Nei prossimi dieci anni voglio rallentare la corsa, togliere la faccia, andarmene dalle abitudini, smettere di stare attenta. Tornerò in tutti i Paesi in cui sono stata con gli occhi chiusi. accecata dalle luci del circo. Quando uscirò da Gucci smetterò di fare questo lavoro.

Parole talmente normali. Il guaio è che la normalità sembra sia diventata la vera rivoluzione, e questo non è un bene.

Tutti i secoli della moda.

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Brutto.

Bizzarra la moda, di questi tempi. Si dibatte tra illusionismo e concretezza.  Qualcuno tenta di darle lustro e spessore, portandola nei musei o tra le parole dei convegni per studiosi e appassionati. Altri la usano come un kleenex, buono per darsi una veloce ripulita.

L’illusione più grande rimane quella della novità, mentre tutto, a ben vedere, si è già consumato sotto questo cielo. A ogni stagione si discute di ciò che è veramente nuovo, quasi fosse un obbligo. E in effetti lo è se la parola moda ha in parte la stessa etimologia di moderno.  Poi però ti capitano tra le mani vecchi articoli, scalcinate riviste del 1941 (!) e scopri che potrebbero essere state scritte oggi e allora immagini che tutto questo fa parte di un mondo che si voleva nuovo, ma che per molti aspetti è nato già decrepito.

Come decrepiti sono i vizi e le umane pochezze che il carrozzone si porta dietro da sempre, se Michel De Montaigne verso la fine del 1500 poteva già declamare:

Onore e fama non sono la medesima cosa, l’onore è più che la fama e la fama, la dea dalle cento bocche, non è che una parte dell’onore, quella parte che dipende solo dall’opinione, che ha bisogno di testimoni che possano riferirne, che vuole che lo si venga a sapere, che ha perennemente bisogno di un palco  e di un pubblico.

Per l’appunto quello che accade ancora oggi, con altri mezzi e lo stesso intendimento.

Elsa in the wind.

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Bello.

Negli ultimi anni i riferimenti a Elsa Schiaparelli si sono fatti via via più numerosi e insistenti. Complice anche la più volte annunciata riesumazione del marchio, ma non solo. Evidentemente l’accostamento, anche solo di sfuggita, con un nome così pieno di carisma e contenuti, fa gola a molti. E si sa, gli avvoltoi sono sempre pronti quando c’è un boccone in vista..

Di quel disgraziato abbinamento o conversazione impossibile con Prada ho già parlato. Pure ho già scritto di quel tentativo mal riuscito di rispolverare qualche reminiscenza, complice un Lacroix non proprio in forma.  Le ultime notizie sono di uno Zanini all’opera per tentare una mission (possible?) quantomai ardua.

Tutti questi scivoloni o fallimenti mi fanno immaginare che ci sia un elemento clamorosamente mancante in queste storie: la conoscenza.  Siamo davvero sicuri che tutti coloro che si occupano di un sistema così fluttuante come quello della moda abbiano concreta conoscenza di ciò che vanno a trattare? In fondo Elsa Schiaparelli rimane uno dei nomi della storia della moda meno conosciuti, se non per due o tre cose che passano di bocca in bocca. Eppure è una tra i pochi ad aver scritto persino una autobiografia.

Tra l’altro è una lettura che consiglio a chiunque, perché non parla solo di moda, ma svela alcuni dei lati più intimi di una donna che ha vissuto intensamente il suo tempo.

La moda della Schiap rimane legata alla sua persona e al suo modo di concepirla, ma anche al suo tempo, che la mise di fronte a scelte non facili. E’ possibile dire che lei fu la prima a regalare alle donne la consapevolezza che con gli abiti potevano finalmente mostrare una personalità, che i loro corpi parlavano un linguaggio più articolato della semplice appartenenza di genere. Essere donne pensanti non era affatto scontato negli anni ’30:

Ho sempre invidiato (agli uomini) il fatto di poter uscire da soli a qualunque ora. Vagare senza meta per tutta la notte o stare seduti in un caffè senza far nulla sono privilegi che possono sembrare di nessuna importanza, ma che in realtà danno alla vita un sapore molto più intenso e sofisticato.

Se Chanel e Vionnet avevano liberato il corpo e i tessuti, lei fece un ulteriore passo in avanti e mise mano alla liberazione del significato di un abito, della sua interazione con la sfera dei sogni, dell’inconscio. Per fare questo si servì dell’arte, ma in un modo che è ben lontano da molti degli esperimenti (più che altro commerciali) attuali.

La Schiaparelli ragionava come un’artista, pur consapevole che quegli abiti erano comunque destinati a vestire il quotidiano. Un’alchimia che ha dell’incredibile, forse possibile allora anche grazie ad un momento storico irripetibile, forse, semplicemente, il frutto di una mente e di una creatività al di fuori da ogni schema. Tanto superiore da permetterle di capire anche quando lasciare:

Quando il vento ti prende il cappello e te lo porta via, sfidandoti a inseguirlo sempre più lontano, tu devi correre più veloce del vento se vuoi recuperarlo. Capii allora che per costruire con maggiore solidità, a volte si è costretti a distruggere. Che bisogna imparare a parlare la lingua di chi non capisce la differenza tra carne da macello e carne umana..

Pensando a tutto questo, mi accorsi che si era chiuso un cerchio e che non potevo proseguire per la stessa strada senza diventare una schiava; che dovevo allontanarmi da Place Vendome, alle cui tiranniche esigenze ero ormai soggiogata, e che avevo bisogno di un cambiamento radicale.

Una lezione imperdibile per tutti quelli che si avvicinano o che sono già da tempo alle prese con la moda. Prima ancora di accostarsi a questo nome, prima di riempirsi la bocca con nomi che finiscono con il rappresentare solo la smania di rubare qua e là briciole di storia.

Una lezione che non ammette i protagonismi dei personaggi, bensì il coraggio delle persone.

Il buio oltre gli spalti.

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Brutto.

Queste splendide foto di Stefania Bonatelli sono eloquenti.  Avrei anche potuto intitolare questo post il lato oscuro della moda, ma il concetto di buio mi pare più appropriato. Il buio che isola, mettendo in scena al suo opposto un ego che si alimenta spesso di se stesso.  Nessuno guarda più alcuno; ognuno guarda solo se stesso. La sfilata, i vestiti sono solo il pretesto per mostrarsi. Ne nasce una solitudine infeconda, una incapacità di connettersi davvero con il mondo.

Poi, sotto la luce accecante del giorno il trucco e i lustrini diventano poca cosa.

Come succede nel circo vero, finita la magia dello spettacolo, scopri che le belve sono spelacchiate e il domatore ha le toppe sui vestiti lisi.

Vittime e carnefici.

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Brutto.

Il novero delle fashion victim non accenna a sfoltirsi. Leggo con costernazione di blogger che non esitano a definirsi tali, di personaggi pubblici o semplicemente mediatici che si appuntano orgogliosi  questa medaglia ai caduti. Ma di quale guerra? Non oso immaginare scene apocalittiche con schiere di vittime appese esanimi all’ultima borsetta..

Il carnefice in questione è la moda , che detta regole perentorie al suono di must have, must see, fino al fatidico e definitivo must be.  La vittima non si sottrae, al contrario, è ben felice di assecondare il carnefice, che sceglie e decide per lei.  Non è più un teatro, ma solo un teatrino. Non è più un gioco, ma un giocattolo stupidamente serio.

La tentazione di lasciare le vittime al loro destino è forte: in fondo questo carnefice non brutalizza, né tortura. Le costringe solo a rincorrere un bisogno che non è nemmeno più desiderio. Peggio per loro se, nonostante le frequentazioni di mostre sui padri della moda e lo stazionamento sui tavolini del salone di rappresentanza di monografie monumentali, si ritrovano a inseguire col fiato corto l’ultimo trend. Poi però rifletto e a pensarci bene questo è un male comune. Almeno un po’.

La moda è omologazione e distinzione. Praticamente schizofrenica.  C’è da stupirsi allora se è così facile perdere la testa? In fondo i confini tra le vittime e i carnefici sono così labili, entrambi non potrebbero fare a meno gli uni degli altri e si alimentano a vicenda.  A volte sembra pura illusione l’idea che una tendenza non ci tocchi nemmeno un po’ o che l’influenza di un marchio non diriga nemmeno un poco le nostre scelte.

Lo stesso processo che ci porta ad interessarci, a discutere e a scrivere di moda è un po’ il riflesso di quella gabbia invisibile in cui siamo tutti più o meno prigionieri.

Servirebbe forse ogni tanto un leggero distacco, un accenno di autocritica. Farebbe bene alle fashion victim, ma anche a quelli che, a torto o a ragione, credono di dettare le mode. O peggio di esserne al di sopra.

Quelli che se la cantano e se la suonano..

quelli che se la cantano e se la suonano

Brutto.

Nei periodi di eventi canonici (sfilate, biennali, ecc.) si assiste alla migrazione in massa di quelli che io chiamo i martiri dell’immagine.  Coloro che per professione o pseudo-tale si occupano di moda e dintorni.  Quelli che, per intenderci, quando gli chiedi -cosa fai nella vita- ti rispondono immancabilmente:  -mi occupo di stile-.

Che siano giornalisti, aspiranti designers, rappresentanti di abbigliamento, blogger, negozianti, parrucchieri o millantatori poco importa, loro fanno moda.  Loro sono “costretti” a sorbirsi i saloni sotto la canicola di Giugno o correre da una sfilata all’altra (posto standing di solito, ma questo non lo dicono) con l’immancabile tacco 15 + plateau e contro-plateau o comunque una bardatura di tutto rispetto. Vuoi mica che Schuman si perda l’ultima mise!  Essere immortalati dai blogger di tendenza o nei siti dei meglio vestiti è in effetti a queste latitudini il premio più ambito. E poi diciamocelo, a questi eventi ormai si va più per farsi guardare che per guardare.

Ma c’è un altro sollazzo, ben più subdolo, che attira questo nutrito gruppo: la finto-lamentela sui social network.  Non perdono occasione per raccontarvi quanto sia stato stancante l’ultimo vernissage da Armani o la scapicollata in taxi per non perdersi neanche un minuto della sfilata dello stilista di grido. Per non parlare delle code in aeroporto per andare a guardare la settimana della moda di Dubai..  Ci godono un sacco a farsi belli e si vede da lontano, ma loro imperterriti fanno finta di essere tanto stressati e di non poterne davvero più…

Questo post è per voi, martiri con la coda di paglia, per dirvi che fate ridere.