Robert Piguet:la semplificazione del lusso.

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1930

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1940

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1951

 

Bello.

Robert Piguet era svizzero di origine, ma, negli anni trenta e anche dopo, veniva definito come lo stilista più parigino dei parigini.

La sua è una storia lineare: una vocazione precoce, il trasferimento a Parigi, l’apprendistato presso importanti case di moda. Poi l’apertura della propria maison, il successo.  Coniugava con il suo stile due insegnamenti (solo) apparentemente inconciliabili: l’uso del colore opulento appreso da Poiret e la semplificazione e funzionalità appresi da Redfern.

La selezione delle immagini relative alle sue creazioni, mi ha portato a scegliere questi esempi che mi sono sembrati subito notevoli. Si riconosce un approccio singolare, l’uso di tagli sperimentali per quegli anni. A me pare di cogliere anche un sincero amore per il mestiere, che si confermò con la presa di posizione durante l’occupazione nazista a Parigi: così come altre case di moda, si rifiutò di portare la sua moda a Berlino.

Quello che apprezzo in questi abiti è la semplificazione del lusso. La mano del couturier è innegabile, ma dietro si intuisce la presenza del designer. Un passo avanti non indifferente.

Nella biografia di Piguet sembra non esserci spazio per il narcisismo che affligge e affliggeva molti couturier: lasciò grande spazio ai giovani collaboratori, formandoli e accogliendo le loro idee.  Collaboratori come Dior, Hubert de Givenchy, Balmain.

Ogni volta che mi avvicino a questi grandi nomi provo a immaginare cosa sia stato per loro il cambiamento radicale di prospettiva creato dalla guerra. Credo che ci sia voluto uno sforzo di volontà notevole per continuare a pensare alla bellezza in un mondo piombato nel lutto.

Piguet si spense nel 1953. Nel 1951 aveva chiuso l’attività, in fondo lavorò fino quasi alla fine.  La dedizione al mestiere è il tratto che ritrovo in tutta questa generazione di creatori di moda. Una cosa semplice, lineare, un valore che ottimisticamente credo che diventerà di nuovo di moda.

La migliore sarta del mondo e il viaggiatore.

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Madeleine Vionnet

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Bruce Chatwin

Bello.

Molti si chiederanno cosa abbia a che fare Vionnet con Chatwin, considerando la distanza dei rispettivi interessi, eppure un legame c’è. Bruce Chatwin realizzò una delle rare e più belle interviste alla grande couturier e si può dire che per entrambi stranamente quell’esperienza è legata ad  un definitivo commiato. Chatwin sarebbe morto dopo pochi mesi dalla pubblicazione del libro che la conteneva (Che ci faccio qui?), mentre per  Vionnet si trattò probabilmente della sua ultima intervista. Lei sarebbe morta meno di tre anni dopo averla rilasciata.

Era il 1973, Madeleine Vionnet all’epoca aveva 96 anni, Chatwin stava lavorando per Vogue America come inviato, possiamo dedurre che l’imput gli fu fornito direttamente da Diana Vreeland.

Vionnet aveva abbandonate le scena della haute couture nel 1939, esattamente allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Non aveva più realizzato vestiti da allora, questo non le aveva però impedito di occuparsi ancora di moda, a modo suo, come sempre aveva fatto nella sua carriera.

La migliore sarta del mondo, come lei stessa, giustamente, si definiva, riuscì ad affascinare un viaggiatore incallito come Chatwin. Lei, testimone sopravvissuta di un tempo che non c’era più, attraverso ricordi lucidi e sintetici rivelò all’attento osservatore una personalità totalmente fuori dal comune.

Abbaglianti le ultime battute dell’intervista:

Al momento di lasciarla mi  inquietava il pensiero che il nostro fotografo potesse disturbare la sua tranquillità.  “No, non mi disturberà. Sarò molto contenta di vederlo. Ma non può fotografarmi il cervello…!”.

Théatre de la mode.

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theatre de la mode (Molineaux)Edward Molyneux

theatre de la mode (Patou)Jean Patou

Bello.

Si chiamava Théatre de la Mode e fu esposto a Parigi il 27 marzo 1945, a guerra appena finita. Non c’erano tessuti e quel poco che c’era doveva essere utilizzato con infinita parsimonia. Quindi si utilizzarono manichini in miniatura fatti con filo di ferro e testine di bronzo. Tutte le maison che erano sopravvissute alla guerra vestirono queste bambole alte 70 cm, con le loro ultime novità.

“Si è rimesso in pista qualcosa che aveva continuato ad esistere, ma che non era più così conosciuto. Si poteva pensare che la Couture fosse qualcosa del passato che stava per scomparire o che era già scomparsa. Al contrario…” (Robert Ricci).

Quello che mi colpisce in questi tre modelli, è l’incredibile somiglianza con quel new look che Christian Dior avrebbe imposto  al mondo con grande clamore mediatico ben due anni dopo.

Sulle tracce di Gabrielle.

Molte donne eleganti avevano raggiunto Deauville. Bisognò non soltanto far cappelli per loro, ma presto, in mancanza di un sarto, vestirle. Confezionai per loro dei jersey con maglioni di stallieri, golf d’allenamento come ne portavo io stessa. Alla fine di quella prima estate di guerra avevo guadagnato 200 mila franchi d’oro (…). Cosa sapevo del mio nuovo mestiere? Nulla. Ignoravo che esistessero sarte. Avevo una coscienza maggiore della rivoluzione che stavo per provocare nell’abbigliamento? In nessun modo. (…). S’offriva un’opportunità, io la presi. Avevo l’età di quel secolo nuovo che si rivolse dunque a me per l’espressione del suo guardaroba. Occorreva semplicità, comodità, nitidezza, gli offrii tutto questo, a sua insaputa. I veri successi sono fatali.

( C. Chanel)

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Bello.

Passeggiando sul lungomare di Deauville con le cabine che prendono il nome da personaggi famosi (soprattutto divi americani, e noto che Ridley Scott è l’unico con il titolo di Sir) ammiro una bella mostra dedicata ai cavalli. E’ risaputo che couture e corse di cavalli hanno da sempre una liaison intensa: l’ippodromo di Deauville era il luogo preferito per coloro che volevano vedere e farsi vedere.

Di lei (Gabrielle), qui a Deauville si sono perse le tracce. Ne ho cercate invano: troppo tempo e troppa moda sono trascorsi.