Artigiani non si nasce.

 

estetica fashion

(immagine da http://www.tracciamenti.net/)

Bello?

Ho la sensazione di essere stata fraintesa in alcuni momenti.

Non c’è dubbio che io sia completamente a favore dell’artigianato e di chi, in questo campo, opera con la sensibilità inimitabile delle mani (d’altra parte io stessa, dopo molti anni, ho il sospetto di far parte del gruppo..), ma questo non significa che tutto ciò che fanno le mani sia bello e buono.

Prendiamo per esempio gli onnipresenti mercatini, dove troppo spesso si spaccia per artigianato artistico della inutile paccottiglia, dove  può capitare che il concetto di bello sia talmente esteso da sfondare le porte del kitsch. Oppure le fiere del bricolage, dove ognuno può sentirsi designer (almeno) per un giorno. O ancora i siti, i gruppi, i negozietti di oggetti hand-made: dalla bomboniera al bijoux, senza disdegnare borse, felpe e vari complementi di arredamento. Il tutto realizzato con semplici mosse apprese da tutorial.

Io credo che chiunque abbia il diritto di divertirsi a plasmare con le proprie mani oggetti secondo il proprio gusto, ma l’artigianato di qualità unito al design è un’altra cosa.

Lavorare in questi termini prevede innanzi tutto una conoscenza della materia che non si può improvvisare. Conoscenza pratica, ma anche teorica: delle tecniche di lavorazione, degli stili, della storia e dei materiali.  Ma questo è solo l’inizio.

Poi occorre una esperienza concreta che si forma nel tempo, sperimentando e facendo ricerca.  Significa studiare, osservare, maneggiare, anche commettere errori.

La componente estetica in un oggetto di artigianato/design è fondamentale e se la gioca alla pari con quella funzionale. Anche questa è frutto di ricerca e studio. Forma e funzione: ogni buon artigiano/designer sa che su questi due fronti si gioca la partita, e non è affatto facile.

Un designer non smette mai di lavorare. Il mondo è il suo campo d’azione e ogni occasione è buona per osservare e imparare, per essere in sintonia con i cambiamenti. Questo significa soprattutto tempo da investire leggendo, ascoltando, toccando, annusando, viaggiando. Significa anche denaro: per libri, riviste, concerti, cinema, musei, viaggi..

Un costo difficilmente ammortizzabile, ma pazienza, per fortuna c’è una buona dose di piacere intellettuale, e non solo, in tutto questo, che almeno ripaga della fatica.

Ma non è finita. Un buon professionista deve essere anche un discreto esperto di tendenze, di mercato, di tecniche di comunicazione. Attualmente deve anche sapersi muovere decentemente in rete. E poi qualche conoscenza spicciola di tecniche di vendita non guasta e, perché no, anche un po’ di psicologia.

Poi ci sono naturalmente anche le doti innate, relative a manualità, buon gusto, spirito di osservazione, spirito critico. Quelle non si imparano.

Il risultato, se tutto va bene, saranno oggetti interessanti, piacevoli, qualche volta belli.

Se siete soliti frequentare i mercatini e accontentarvi degli oggetti a 5/10 euro, sappiate che non state comprando il risultato di tutto questo. Sarebbe impossibile e lo capirebbe persino un bambino.

Io credo che l’autentico artigianato di ricerca si riconosca a prima vista, quindi la prossima volta che lo avvistate, per favore, non lamentatevi che costa troppo.

Non sarà mai abbastanza.

Soprattutto, se vi dilettate nel fai-da-te, non definitevi artigiani. Rispettate questa antichissima parola e non usatela a sproposito.

Pierre Balmain (1914- 1982).

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Brutto.

Non mi interessa occuparmi del planetario battage pubblicitario o della furbissima strategia marketing messi in atto con il connubio tra H&M e Balmain. Non sono cose che valga la pena di analizzare, a meno che non siate manager e vi occupiate di numeri o siate esperti analisti del settore. Non è il mio caso.

Quello che noto a prima vista è l’involgarimento dello stile. Sarà perché è indirizzato a un consumatore low cost? Deve essere questo ciò che pensano i grandi marchi delle masse.  No, non mi stupisco affatto, democratizzazione fa solitamente rima con roba cafona. D’altra parte cosa si pretende, non siamo mica su Rai Educational?

Allora quello che faccio di solito in questi casi, è rifarmi gli occhi con un po’ di storia, ricordando da dove siamo venuti.  Si, perché prima di Balmain c’era un certo Pierre Balmain, che si dice addirittura avesse anticipato il new look di Dior. Di certo i due erano amici e prima ancora di diventare qualcuno, progettarono di aprire insieme la loro prima maison. Poi non ne fecero nulla e ognuno andò per la sua strada, che per entrambi fu ricca di successi e soddisfazioni. Ma bando alle ciance, ecco qualche esempio dello stile jolie madame del nostro, che, a proposito del suo mestiere diceva: “Siamo artigiani con un dono speciale per il bello”.

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E a proposito di stile, diceva ancora: “Rispettate i principi base della moda e sarete sempre in sintonia con le ultime tendenze, senza caderne preda”.

Una lezione che in casa Balmain devono aver dimenticato.

Non si vive di solo marketing.

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Brutto.

Non è stato molto fortunato Lagerfeld con la scelta del tema di questa ultima sfilata per Chanel (primavera/estate 2016).  O forse si, visto che per molti vige il detto “..Purchè se ne parli”.

D’altra parte doveva aspettarselo, considerando la sua propensione negli ultimi tempi a prendere come ispirazione luoghi così affollati di varia umanità. Dopo il corteo e il supermarket ora è la volta dell’aeroporto. Luogo considerato solitamente ad alto tasso di glamour, se non fosse per le ultime immagini rimbalzate su tutti i telegiornali, di quei dirigenti di Air France con addosso vestiti stracciati o addirittura a torso nudo dopo la furia degli annunciati licenziamenti.

Ed è interessante osservare questa costante in entrambi gli scenari, così diversi per evidenti motivi, ma che pongono l’attenzione comunque sui vestiti.

Forse toccherebbe anche a coloro che guidano la carrozza, come Lagerfeld, di fare qualche piccola riflessione. Se davvero la moda racconta il quotidiano, e non ho dubbi che lo faccia, allora che lo racconti con maggiore onestà e lungimiranza. Forse anche solo con una briciola di coraggio, l’eterno assente.

Un aeroporto o un corteo come quelli visti da Chanel fanno francamente sorridere perché assomigliano tanto a quegli scenari in cui veniva calata la Barbie un po’ di anni fa. Vi ricordate la Barbie con il camper, la Barbie con la piscina..?

Giocattoli che nemmeno le bambine vogliono più, refrattarie ormai a quei concentrati di zucchero e plastica. Invece noi, donne di questo tempo confuso e complesso, dovremmo farci catturare dall’attualità di un gate affollato di fashion-addicted.

Se davvero il marketing e tutte le strategie di vendita e di presenza sui social diventano il cuore e il motore di un marchio, allora significa che la moda ha smesso di raccontare la nostra storia.

Ma qualcuno li ha poi guardati i vestiti?

Le ragioni del successo.

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Brutto.

Non è vero che se hai talento ce la fai sempre. Lo leggi spesso nelle interviste, ma perlopiù si tratta di quelli che sono arrivati dove volevano e nell’impeto dell’onda di successo che li travolge e li gratifica, si regalano le ragioni giuste per essere riusciti a farcela. Fingono, tra l’altro, di elargire speranze alla folla che sta sotto e scalcita per arrivare lassù.

Il talento può essere anche una condanna, quando non trova il canale per esprimersi. Produce l’impossibilità di non tenerne conto, di scrollarselo di dosso e fare come non ci fosse. Mette di fronte a scelte azzardate e produce quasi sempre frustrazione.

Conosco molte persone di sicuro talento che non hanno ricevuto mai un’occasione. Al contrario, qualcuno ha messo loro davanti continui ostacoli. Si, perché il talento vero produce anche invidie, da parte di chi ne ha meno, ma in compenso ha più occasioni.

Spesso poi quelli che ce l’hanno fatta godono di un bonus, ossia il loro talento è sopravvalutato.

In questa epoca di contatti e relazioni più o meno virtuali, sembra che il vero e unico talento che conta sia quello relativo al marketing di se stessi. Questo spiega il proliferare di corsi, workshop e lezioni volanti che dovrebbero insegnare in poche parole a “vendersi” al meglio.  La moneta di ritorno poi è sempre la solita: visibilità.

Perché se non sei visibile, allora non c’è talento che tenga.

Cosa ne facciamo quindi di quei talenti introversi e magari timidi, poco portati per l’auto-celebrazione e con scarso narcisismo? E di quelli che non hanno alcuna intenzione di diventare i cartelloni pubblicitari di se stessi e si piacciono così come sono?  Conosco già la risposta dei più scafati:  peggio per loro.

Già, ma anche per noi che ce li perderemo.

La pretty woman by Saint Laurent.

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Bello?

Saint Laurent disegnato da Hedi Slimane ha appena sfilato a Parigi con la collezione per l’autunno/inverno 2015-16.

Come al solito i pareri sono discordanti e siccome il trucco ormai è scoperto, capiamo bene che questo gioca a favore, e non poco, dello spettacolo e quindi della visibilità.  I furbetti del marketing, d’altra parte, cavalcano l’onda già da varie stagioni.

Slimane, ancora una volta, prende i capisaldi della moda di Yves -l’animalier, lo smoking, il nude look- e dopo averli masticati per benino e ridotti in pezzetti che erroneamente potrebbero sembrare stracci, li rimanda in passerella.

Il suo punto di riferimento rimane la musica, certa musica: un po’ grunge, un po’ rock, un po’ elettro, un po’ punk. Le sue donne giocano a fare le maledette, assumendo pose e mood da passeggiatrici metropolitane. Tentano l’impresa un po’ ridicola di mettere insieme volgarità e una sfatta raffinatezza; si auto-candidano a divenire le dandies del futuro.  Peccato che quelle calze smagliate (a dire il vero persino troppo) ricordino invece un’estetica anni ’70/’80 già notevolmente celebrata (da Blade Runner a Madonna..).

Ma è proprio questo il bello: la scusa è che non c’è più niente da inventare, c’è solo da assemblare.

Non dubito che i vari pezzi di questa collezione, presi singolarmente, possano risultare efficaci, si tratta pur sempre di classici, a ben vedere. E’ l’insieme che sfiora leggermente la caricatura, come se lo stilista volesse farci credere che realmente dietro a questi outfit ci sia un pensiero nuovo di zecca.

God save fashion!

fashion is dead

Brutto.

Li Edelkoort è annoverata tra le 25 persone più influenti nel comparto moda – continuo a chiedermi come e perché riescano a fare queste stime- in ogni caso è innegabile che sia una attenta e puntuale osservatrice di tendenze.

Al Design Indaba 2015 ha annunciato senza mezzi termini la dipartita della moda, così come noi la conosciamo. E ha elencato uno dietro l’altro i motivi che hanno portato a questo decesso:

-Educazione, o meglio mancanza di educazione vera per le nuove leve di designer.

-Perdita di competenze nel tessile.

-Incapacità del sistema e degli operatori di prendersi carico del problema dello   sfruttamento delle persone addette alla produzione.

-Rapporti, fin troppo compiacenti, tra case di moda, riviste e blogger (ossia una totale mancanza di pensiero critico).

-Marketing avido e cieco.

Quello che soprattutto denuncia la Edelkoort, è che la moda ha smesso di essere in comunicazione con ciò che succede nel mondo e con ciò che vogliono le persone. Non era mai successo prima: la moda è sempre stata lo specchio della storia e dei cambiamenti di costume e questa capacità le restituiva una funzione necessaria; direi che alimentava la parte sana del sistema.

C’è un passo dell’intervista che mi pare illuminante:

“Fashion shows are becoming ridiculous: 12 minutes long, 45 minutes driving, 25 minutes waiting. Nobody watches them any more. The editors are just on their phones; nobody gets carried away by it.”

Le sfilate sono diventate obsolete da molto tempo, eppure gli addetti ai lavori continuano a presentarle nello stesso modo, con le stesse noiose abitudini. Persino gli stessi sciocchi inconvenienti dell’ultimo minuto. Sorge il dubbio, che è una quasi certezza, che tutto serva ormai a deliziare solo la folla di appassionati che farebbero carte false pur di possedere quegli imperdibili inviti. Un sistema che si alimenta solo più grazie alla egocentrica visione di se stesso.

Un sistema ipocrita fino in fondo, visto che ormai la messa in onda in streaming cancella persino l’utilità reale della presenza in loco. Eppure ci sono fior di giornalisti che difendono il loro diritto ad esserci, aggrappandosi alla necessità di godere dal vivo il phatos di quei 12 minuti. Come se ogni sfilata fosse uno spettacolo, cosa che non è ormai, se non in rarissimi casi.

Li Edelkoort rincara ancora la dose quando dice che la moda è diventata solo una ridicola e patetica parodia di ciò che è stata e che l’unica strada è quella di concentrarsi finalmente solo sugli abiti.

Aggiungo io che la moda è morta perché non solo sono scomparsi i couturiers e i designer, ma latitano persino i direttori creativi.  Abbondano invece gli stylist, buoni a mettere insieme pezzi di qualcun altro.

Concentrarsi finalmente solo sugli abiti sarebbe una dieta necessaria. Dal canto mio non potrei essere più d’accordo: credo che la sua anti-fashion faccia il pari con il mio against-fashion; anche se penso che questo grido di dolore arrivi con un certo ritardo, in un sistema ormai talmente compatto che solo una deflagrazione interna potrebbe scalfire.

E’ probabile che il fondo del barile non sia stato ancora raschiato.

 

Se la puzza diventa trendy.

duro

Brutto.

Non è uno scherzo, bensì un vero prodotto di nicchia per nasi raffinati (108 euri per 30ml!). Insomma la versione glamour per ‘l’uomo che non deve chiedere, mai’.

Basta con i fiori, le essenze gourmand, i legni rari; la nuova frontiera della profumeria sono gli odori corporei: sudore, latte materno, odori sessuali..   Ma vi segnalo un’altra chicca: Peety di O’Driù, un profumo a cui vanno aggiunte (tocco personalissimo!) 10 gocce della propria pipì.. Anche questo non te lo regalano: ben 150 euri.

Secondo Lidewij Edelkoort, definita una delle 25 donne più influenti della moda, c’è voglia di odori animali, primitivi. L’odore di pulito ha stancato, quindi l’idea è quella di riprodurre l’odore di sporco, brutto e cattivo.

Basterebbe non lavarsi, obietterà qualcuno.. Troppo facile. Sporco si, ma griffato.