Il lusso democratico che svende anche i sogni.

valli e h&m

Brutto.

Nuova collaborazione per H&M, questa volta si tratta di Giambattista Valli, uno stilista che ai suoi esordi mi aveva fatto spendere parole di grande apprezzamento per la sua moda lussuosa ma non opulenta. Poi sembra si sia fatto prendere dalla “sindrome da principessa perenne” e annaspando tra nuvole di tulle, ha preso una direzione che non mi ha convinto.

Riguardo alla collaborazione con il colosso della moda usa e getta, Valli conferma che si tratta di una proposta oltraggiosa*, ma pare che l’oltraggio si sia trasformato in complimento. Potere dei mutamenti della lingua o del vil denaro?

Poi lo stilista si dilunga in un’analisi del mercato e delle tendenze e dice:

“La moda spesso è asfittica, ragiona solo per tendenze e correnti. Non capisce che la gente vuole il sogno, di quello che viene definito trendy non gliene importa più di tanto. Vuole l’abito che Rihanna aveva ai Grammy, vestirsi come Amal Clooney o Charlotte Casiraghi. So bene di cosa parlo, il mio mondo si basa su questo. E con H&M ora è alla portata di tutte”.

Bene (si fa per dire), mi sento di aggiungere solo che se il sogno è un abito di una catena low cost, allora diciamolo che è un sogno da quattro soldi.

 

*Trovo sia un bellissimo complimento il fatto che H&M mi abbia proposto qualcosa di così oltraggioso…(…). G. Valli

No more angels in paradise.

jeremy scott

Brutto.

” Prima di arrivare qui (da Moschino) creavo poche collezioni l’anno. Ora non le conto più. Questa velocità, però, non la ritengo negativa perchè fa parte di questi tempi. Fare il designer è come essere un atleta: devi allenarti ogni giorno senza perdere il ritmo. Percheè se non lo fai sei fuori dal gioco”.

Questa una tra le varie dichiarazioni di Jeremy Scott, attuale direttore creativo di Moschino, forse il più populista tra gli stilisti (detto da lui).  Saltano all’occhio due parole immediatamente: velocità e gioco.

Sulla velocità molti paiono essere d’accordo sul fatto che non si possa far altro che adeguarsi alla tendenza generale e quindi correre a perdifiato tentando di superare i concorrenti. E qui entra in campo l’altra parola, il gioco. Perchè, a quanto pare, quel gioco sembra essere l’unica posta in palio per cui valga la pena partecipare.

Pur di restare nel gioco si è disposti a pagare qualunque prezzo. E’ così?

E’ probabile che il populismo sia una diretta conseguenza di questo atteggiamento: voler piacere a più persone possibili, essere sempre “sul pezzo”, produrre e consumare più oggetti ed esperienze possibili. Insomma essere disposti a diventare tout court un’ estensione del mercato, possiamo dire un prodotto del mercato stesso.

E non è proprio un caso se Scott, nel suo argomentare la propria politica di comunicazione, fa riferimento a Donald Trump, quello che la politica la fa davvero.

Dice che è quello il tipo di comunicazione perfetto: semplice, diretto, immediato. Probabilmente qualcosa che non faccia troppo pensare, un bel prodotto già pronto, facile da consumare senza indugi.

Sarebbe piaciuto tutto questo a Franco Moschino?  E’ sufficiente che il fatturato abbia un segno positivo per sorvolare su questioni accessorie come etica, contenuto, qualità, innovazione, significato…?

Forse le vere vittime di questo tipo di moda, non sono tanto le cosiddette fashion-victim, piuttosto tutti coloro che si adattano a un sistema che richiede mediocrità, che premia il più adattabile al livello medio. Forse in tutto questo si è perso di vista il tempo per pensare, che non è un tempo morto. La velocità se l’è fagocitato insieme al senso critico, che fa dire a uno stilista che la sua moda è populista, come se fosse un complimento.

E il guaio è che tutto questo sembri normale.

Il lusso della povertà.

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Bello:

“Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.

I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.

La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.”

(Goffredo Parise1974)

No social by Pucci.

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Bello?

Massimo Giorgetti, già direttore di MSGM, e ora direttore creativo di Pucci, marchio storico del made in Italy, si riallaccia al tema del desiderio, che ho tentato di trattare nel post precedente.  Lui afferma: -..Io sono cresciuto quando il desiderio era anche attesa. Non voglio perdere quelle sensazioni..-.

Giorgetti ha deciso quindi di bandire i social dalla sua ultima sfilata per Pucci. Niente più foto o video su Instagram. Facebook, Twitter e via dicendo. Aspettate a vedere i vestiti quando saranno nei negozi, non prima.

Mossa contro-corrente la sua.  Sarà stato troppo coraggioso o magari più furbo di altri, arrivando per primo? Sarà, il suo, un reale desiderio di fermare, o almeno rallentare, la corsa all’ultimo scatto che ha annullato il divario tra sogno e realtà?  Avrà un seguito tra coloro che si dicono stufi di non avere nemmeno più il tempo, non solo di farle, ma persino  di pensarle, le collezioni? Oppure sarà smentito dai fatti, correndo il rischio di risultare assente per mancanza di visualizzazioni?

Un’altra domanda che mi sono posta è: come farà a vietare agli invitati alla sua sfilata di scattare e postare? Si farà consegnare i telefonini all’ingresso come durante i compiti in classe a scuola? E se qualcuno fa il furbo e si tiene il telefonino di riserva ben nascosto? Perquisizione ad personam? Vi immaginate la Wintour ..? (E se gira i tacchi e se ne va?).

Tutte domande a cui io non so rispondere. Registro solo il fatto che qualcosa si muove in questa direzione.

La fretta (2).

panier

Brutto.

Sono convinta che la moda sia rimasta legata a una visione settecentesca in fatto di qualità e valore. Non dico che non ci siano state esperienze veramente innovative, ma ciononostante l’intero comparto vive e si muove ancora con quel concetto che recita più o meno così: il lusso è abbondanza.

Ne ho la conferma ogni volta che osservo le spinte centrifughe che orientano i grossi gruppi; la velocità che ormai è l’unico mantra: velocità = novità.  L’affanno generale è sempre quello di sfornare più pezzi, per soddisfare desideri che nessuno più sa nemmeno di avere. D’altra parte il desiderio ha soppiantato il bisogno, non è vero? Allo stesso tempo però quel desiderio dura solo un attimo, perché il mercato si affretta a soddisfarlo ancora più velocemente.

La quantità di vestiti e accessori prodotti in tempi sempre più corti provoca qualche conseguenza, che generalmente non sembra preoccupare molto, ma invece credo che dovrebbe farci riflettere.  Ritorniamo al tema del desiderio: smettere di desiderare significa anche smettere di immaginare, svuotare di significati allegorici e personali gli oggetti o le azioni. Ogni desiderio è in fondo uno stimolo per la creatività e la spinta verso il futuro, l’opportunità di creare delle occasioni. Insomma potremmo paragonare il desiderio alla miccia che innesca l’incendio.

Non possiamo stupirci allora se una massa di bulimici ha smesso di immaginare e viaggia con la testa immersa in una realtà virtuale sempre più invasiva.

In tema di abbigliamento, cosa fanno i grandi marchi? Rilanciano la posta creando l’ennesima collezione quasi in tempo reale o trasformano il mondo in una passerella globale, che sia Cuba o Rio fa lo stesso, purchè desti l’attenzione mediatica di qualche giorno.

L’abbondanza prima di tutto. Nel settecento o giù di lì riguardava i metri di tessuto, i ricchi ricami e le forme via via più ingombranti; oggi riguarda la velocità e la smania di essere presenti, pervasivi, convincenti.

Abbondare in follower, in passaggi sui social, in scatti condivisi, notizie, pubblicità, eventi.

In tutto questo delirio di onnipresenza che fine hanno fatto gli abiti, da cui tutto è scaturito?  Molti, anzi moltissimi sono finiti negli outlet, nei mercati o nelle discariche, qualcuno in armadi che non ne avvertivano la mancanza.

Che fine hanno fatto gli stilisti lo sappiamo bene.

 

Artigiani non si nasce.

 

estetica fashion

(immagine da http://www.tracciamenti.net/)

Bello?

Ho la sensazione di essere stata fraintesa in alcuni momenti.

Non c’è dubbio che io sia completamente a favore dell’artigianato e di chi, in questo campo, opera con la sensibilità inimitabile delle mani (d’altra parte io stessa, dopo molti anni, ho il sospetto di far parte del gruppo..), ma questo non significa che tutto ciò che fanno le mani sia bello e buono.

Prendiamo per esempio gli onnipresenti mercatini, dove troppo spesso si spaccia per artigianato artistico della inutile paccottiglia, dove  può capitare che il concetto di bello sia talmente esteso da sfondare le porte del kitsch. Oppure le fiere del bricolage, dove ognuno può sentirsi designer (almeno) per un giorno. O ancora i siti, i gruppi, i negozietti di oggetti hand-made: dalla bomboniera al bijoux, senza disdegnare borse, felpe e vari complementi di arredamento. Il tutto realizzato con semplici mosse apprese da tutorial.

Io credo che chiunque abbia il diritto di divertirsi a plasmare con le proprie mani oggetti secondo il proprio gusto, ma l’artigianato di qualità unito al design è un’altra cosa.

Lavorare in questi termini prevede innanzi tutto una conoscenza della materia che non si può improvvisare. Conoscenza pratica, ma anche teorica: delle tecniche di lavorazione, degli stili, della storia e dei materiali.  Ma questo è solo l’inizio.

Poi occorre una esperienza concreta che si forma nel tempo, sperimentando e facendo ricerca.  Significa studiare, osservare, maneggiare, anche commettere errori.

La componente estetica in un oggetto di artigianato/design è fondamentale e se la gioca alla pari con quella funzionale. Anche questa è frutto di ricerca e studio. Forma e funzione: ogni buon artigiano/designer sa che su questi due fronti si gioca la partita, e non è affatto facile.

Un designer non smette mai di lavorare. Il mondo è il suo campo d’azione e ogni occasione è buona per osservare e imparare, per essere in sintonia con i cambiamenti. Questo significa soprattutto tempo da investire leggendo, ascoltando, toccando, annusando, viaggiando. Significa anche denaro: per libri, riviste, concerti, cinema, musei, viaggi..

Un costo difficilmente ammortizzabile, ma pazienza, per fortuna c’è una buona dose di piacere intellettuale, e non solo, in tutto questo, che almeno ripaga della fatica.

Ma non è finita. Un buon professionista deve essere anche un discreto esperto di tendenze, di mercato, di tecniche di comunicazione. Attualmente deve anche sapersi muovere decentemente in rete. E poi qualche conoscenza spicciola di tecniche di vendita non guasta e, perché no, anche un po’ di psicologia.

Poi ci sono naturalmente anche le doti innate, relative a manualità, buon gusto, spirito di osservazione, spirito critico. Quelle non si imparano.

Il risultato, se tutto va bene, saranno oggetti interessanti, piacevoli, qualche volta belli.

Se siete soliti frequentare i mercatini e accontentarvi degli oggetti a 5/10 euro, sappiate che non state comprando il risultato di tutto questo. Sarebbe impossibile e lo capirebbe persino un bambino.

Io credo che l’autentico artigianato di ricerca si riconosca a prima vista, quindi la prossima volta che lo avvistate, per favore, non lamentatevi che costa troppo.

Non sarà mai abbastanza.

Soprattutto, se vi dilettate nel fai-da-te, non definitevi artigiani. Rispettate questa antichissima parola e non usatela a sproposito.

Voglia di tenerezza.

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Bello.

Dopo il gran tour ad Artissima e Paratissima ho selezionato alcune immagini che mi sembrano testimoniare un certo mood che dall’arte sconfina nel design e viceversa.  Colori pastello, atmosfere rarefatte e riposanti, anche in presenza di messaggi non meno incisivi. La mia sensazione è che la comunicazione urlata sia messa al bando, prevalga un atteggiamento controllato e silente, per quanto possibile.

Forse, dopo tanta condivisione, c’è nell’aria un desiderio o un monito alla solitudine feconda. Quella necessaria a costruire significati fuori dalla pazza folla.

Se l’arte ha ancora la funzione di anticipare, allora possiamo credere che i tempi siano quasi maturi per dismettere provocazioni e atteggiamenti disturbanti. Magari perché hanno già esaurito la loro carica sovversiva, magari perché l’eterno bisogno di novità li ha resi già obsoleti, oppure solo perché la tendenza ha già esaurito le cartucce e ad ogni ciclo, si sa, ne segue uno opposto.

Rimane il dubbio, però, se l’arte delle grandi fiere sia quella più autenticamente in contatto con i cambiamenti sociali, o non sia piuttosto la vetrina di un mercato sempre più attento all’estetica che al contenuto.

D’altra parte salta all’occhio quanto moda ed arte siano felici di andare a braccetto anche solo guardando il popolo delle gallerie: ragazze e ragazzi sempre più eterei, con l’aria di chi è appena sceso dall’ultima passerella.

Schizofrenie a confronto.

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Bello?

Volutamente, quando mi appresto a commentare una collezione, evito di leggere altri commenti che la riguardano, in modo da non partire, anche inconsciamente, con un pregiudizio. Eppure, pur non avendo letto ancora niente in giro, sono quasi certa che questa sfilata deve aver suscitato il plauso di molti.  Perché Marc Jacobs è pur sempre il paladino dei fashionisti più irriducibili, quasi come dire Chanel (quasi..).

A onor del vero un solo brevissimo commento ho letto su facebook, che diceva più o meno così: -Jacobs è schizofrenico-.  Allora ho subito pensato -bene, ecco perché piace tanto al popolo della moda-.  Giusto pochi giorni fa, sostenevo in un altro post di quanto la moda fosse fondamentalmente schizofrenica, rappresentando contemporaneamente omologazione e distinzione.

Allora, guardando la sfilata, si può ben capire a cosa si riferisse quel commento.  Per la prossima estate lo stilista cambia completamente rotta. No, non una sterzata, ma una vera e propria inversione ad U.  Via la signora discinta (e un po’ puttana, diciamocelo) e neo-realista della collezione invernale per LV,  ecco apparire una ragazzina neo-punk/neo-grunge, che ha appena attinto a piene mani dalle soffitte impolverate della bisnonna.  Via le semi nudità in pieno inverno, ecco gli abiti accollati fino al mento da mettere giusto giusto in pieno Agosto..

Questa collezione parla di un’adolescente in piena crisi esistenziale, che procede a passo spedito in una terra di nessuno, tra mozziconi e rifiuti.  Che sia un po il riferimento allo stato della moda attuale?

p.s. Niente tacchi per la ragazzina. E ci credo, persino lo stesso Jacobs ha rischiato lo scivolone nel finale..

Vittime e carnefici.

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Brutto.

Il novero delle fashion victim non accenna a sfoltirsi. Leggo con costernazione di blogger che non esitano a definirsi tali, di personaggi pubblici o semplicemente mediatici che si appuntano orgogliosi  questa medaglia ai caduti. Ma di quale guerra? Non oso immaginare scene apocalittiche con schiere di vittime appese esanimi all’ultima borsetta..

Il carnefice in questione è la moda , che detta regole perentorie al suono di must have, must see, fino al fatidico e definitivo must be.  La vittima non si sottrae, al contrario, è ben felice di assecondare il carnefice, che sceglie e decide per lei.  Non è più un teatro, ma solo un teatrino. Non è più un gioco, ma un giocattolo stupidamente serio.

La tentazione di lasciare le vittime al loro destino è forte: in fondo questo carnefice non brutalizza, né tortura. Le costringe solo a rincorrere un bisogno che non è nemmeno più desiderio. Peggio per loro se, nonostante le frequentazioni di mostre sui padri della moda e lo stazionamento sui tavolini del salone di rappresentanza di monografie monumentali, si ritrovano a inseguire col fiato corto l’ultimo trend. Poi però rifletto e a pensarci bene questo è un male comune. Almeno un po’.

La moda è omologazione e distinzione. Praticamente schizofrenica.  C’è da stupirsi allora se è così facile perdere la testa? In fondo i confini tra le vittime e i carnefici sono così labili, entrambi non potrebbero fare a meno gli uni degli altri e si alimentano a vicenda.  A volte sembra pura illusione l’idea che una tendenza non ci tocchi nemmeno un po’ o che l’influenza di un marchio non diriga nemmeno un poco le nostre scelte.

Lo stesso processo che ci porta ad interessarci, a discutere e a scrivere di moda è un po’ il riflesso di quella gabbia invisibile in cui siamo tutti più o meno prigionieri.

Servirebbe forse ogni tanto un leggero distacco, un accenno di autocritica. Farebbe bene alle fashion victim, ma anche a quelli che, a torto o a ragione, credono di dettare le mode. O peggio di esserne al di sopra.

A che servono i blog?

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Brutto.

E’ da un pò che rifletto sul tema (scontato dire che mi tocchi da vicino), ancor prima dell’interessante articolo di Simone Marchetti.  La pubblicità della Panasonic con la famosa blogger non è altro che l’ennesimo spunto su cui fare qualche ragionamento.  O forse solo porsi qualche domanda.. (con le domande non si sbaglia mai).

Quanto contano i blogger per le aziende?  Quale reputazione si è conquistato questo fenomeno?  Io credo che il fenomeno sia in lenta evoluzione e non abbia ancora raggiunto la fase di selezione naturale.  Per questo è prematuro dare delle risposte.  E’ comunque curioso notare che sia un’azienda che non ha molto a che fare con la moda, ad aver sfruttato tra i primi questa tendenza.  Non sono sicura che abbia fatto un buon affare.  Certo gli elettrodomestici li scelgono prevalentemente le donne.  Ma in base a quali caratteristiche?  Il design? La funzionalità? La durata?  Io personalmente se dovessi fidarmi del giudizio di qualcuno su questi elementi non seglierei una blogger.

E qui casca l’asino.. Alla fine la domanda che tutti sembrano porsi è se i blogger facciano vendere di più.  Ma io rilancio chiedendo, perchè mai i blogger dovrebbero impegnarsi a far vendere di più’?  Le aziende dovrebbero chiedersi casomai quali sono i motivi che hanno contribuito alla nascita del fenomeno.  Sappiamo che spesso si tratta di un atteggiamento critico nei confronti del mercato, la voglia di avere un opinione che abbia un peso (dicasi spoiling).  Non avrebbe più senso per le aziende chiedersi quali meccanismi erronei hanno contribuito ad essere tanto criticate, piuttosto che correre dietro a chimere e facili vendite?