I dolori della donna romantica.

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Bello?

A l’Aia, in Olanda, presso il Gemeente Museum Den Haag è in corso una mostra che conferma il clima reazionario che si respira di questi tempi nella moda di tendenza: “Romantische Mode”.

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Certo tornerebbe utile approfondire i motivi e le ispirazioni di molta moda contemporanea e a questo scopo sarebbe necessario ad alcuni frequentatori di sfilate e dintorni un viaggetto in quel di Den Haag. Giusto per comprendere che le ragioni di tanti vitini di vespa e gonne gonfie non sono puramente estetiche e nemmeno tanto condivisibili.

Nell’800 alle donne (e alle case) spettava il compito di esternare la ricchezza degli uomini. Quegli stessi uomini che per se stessi avevano scelto una divisa sobria e puritana. Le signore del bel mondo presero alla lettera questa missione, tanto da apparire in molti casi come bambole decorative, in un tripudio di fiocchi, fiori e merletti.

E’ a quel periodo storico che si ispirò Christian Dior, rimettendo in discussione tutte le conquiste che le donne avevano faticosamente realizzato tra le due guerre mondiali.

Sembra che quel periodo sia nuovamente di gran moda. Complice la crisi, e sappiamo che ad ogni crisi si accompagna un ritorno alle vecchie certezze; forse complice anche un sistema della moda particolarmente ingessato che ricorre al passato per acchiappare consensi.

E’ un escamotage che non mi è mai piaciuto e combatto ogni giorno contro i classici abiti da principessa, spiegando alle mie allieve quanto scomodi e invalidanti fossero.

Tutto fuorché romantici.

Artissima e la moda.

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Bello?

Serpeggia negli ampi corridoi tra uno stand e l’altro, la scorgi chiaramente sui volti e gli abiti degli assistenti: giovani, belli e irrimediabilmente cool.  Ma, cosa ancora più sorprendente, la ascolti nelle parole del giovane artista che ti spiega la sua opera.

Questa attitudine verso la moda (o il design).

Mi sono rifiutata di fotografare manichini da bric-à-brac, improbabili stendini carichi di abiti dismessi e insignificanti, il lounge riservato ai vips.  Tutti esempi di una deriva già vista e che non merita di essere documentata.

Allora non chiamatela artissima. Semmai artina.

La moda racconta la televisione.

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Bello..

A Palazzo Madama, Torino c’è una mostra che sembrerebbe interessante: 1924 -2014 La RAI racconta l’Italia. Un racconto che passa attraverso gli abiti di scena di trasmissioni ormai storiche, varietà, balletti, festival di Sanremo.

La prima sala che accoglie i visitatori è decisamente un bel colpo d’occhio: sono in mostra quattro spettacolari abiti neri indossati da Mina e creati da Piero Gherardi.

Il resto della mostra (una quarantina di capi) staziona in giro per le sale tra mobili antichi e oggetti relativi ad un’altra mostra in contemporanea, senza che ci sia alcun legame tra le due esposizioni.  Questo inoltre consente agli organizzatori di pretendere un biglietto niente affatto a buon mercato: 12 euri.

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Peccato, perché l’argomento ritengo che avrebbe meritato un respiro ben più ampio e un approfondimento anche attraverso foto di scena, video di repertorio e scritti esplicativi decisamente più documentati.

A Parigi, gli anni ’50.

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Carven, 1951    –     Jaques Fath, 1954

Bello.

Al Palais Galliera di Parigi è stata inaugurata il 12 Luglio una mostra che non intendevo perdere: Les année 50. La mode en France, 1947-1957.  Confesso che sarei passata da Parigi anche solo per immergermi nelle sale magnifiche di questa istituzione che rappresenta per me il museo della moda.

Gli abiti in mostra non mi hanno fatto rimpiangere il viaggio, per la qualità delle scelte e anche per il modo impeccabile in cui sono presentati: niente fronzoli, ma una cura che si intuisce essere opera di mani esperte.

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Grés, 1956-57

Questo abito della mitica Madame Grés  è uno dei rari esemplari realizzati dalla couturier in un materiale diverso dal jersey di seta o viscosa, con cui era solita cimentarsi. Questo splendido abito è realizzato in velluto di seta cangiante con riflessi beige e rosa églantine.  Ho fatto fatica a non toccarlo..

 

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Balenciaga, 1950-53

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Jean Dessès, 1955    –     Balenciaga, 1958

Un bel match tra i due grandi couturier, ma Balenciaga vince di misura, secondo me. Questo bell’esempio di abito over-size la dice lunga sul controllo che aveva rispetto alla tradizione e all’innovazione. La linea fa pensare a una bambola degli anni ’20, ma le proporzioni annunciano già lo stile degli anni ’60.

Ma Christobal Balenciaga fu un precursore non solo negli abiti, evidentemente, come mette in luce questo articolo del 18 Agosto del 1951 su Paris Match:

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Nell’articolo si mostra per la prima volta dopo 14 anni il volto del couturier (l’inconnu illustre de la haute couture), che era solito celarsi dietro ad una tenda durante le sfilate.  Ho sorriso pensando che nemmeno Margiela si era inventato niente.

 

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Elsa Schiaparelli, 1953

Mi è venuto incontro, improvviso come un coup de théatre, questo abito di velluto rosso della Schiap, italiana di nascita, ma parigina di adozione. Nel 1953 il suo percorso nella moda stava per terminare (avrebbe chiuso l’anno dopo), e lei faticava a dare ancora un senso alla sua presenza nella moda. Ciononostante questo modello mi ha commossa: mi ha dato il senso di una piccola rivolta, contro i luoghi comuni, contro la moda imperante, nel segno di una originalità mai sopita.

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Dior, 1954

Il new look di Dior domina incontrastato e quasi pervasivo in tutta la mostra. Non c’è da stupirsi, era l’unica possibilità per le donne che volessero essere ‘alla moda’ in quegli anni. E non solo in Francia, se si pensa che il 50% delle esportazioni in fatto di moda di quel periodo, era sotto il marchio Dior.  Quello che mi ha stupito è stato leggere che quest’abito è realizzato con tulle grigio artificiale! Chissà perché ero convinta che nell’haute couture si utilizzasse solo tulle di seta..

Tra le poche eccezioni rispetto allo stile di Dior, spiccano alcuni abiti di Chanel, per la semplicità che appare quasi sgraziata rispetto all’opulenza scenografica degli altri abiti. La visione nitida e contro-corrente di Mademoiselle risulta ancora più evidente in questo contrasto ed è chiaro che il valore delle sue proposte sembra quasi una profezia per il futuro che sarebbe stato. Oltre a un buon esempio di coerenza formale.

La mostra chiuderà il 2 Novembre 2014, se passate da Parigi non lasciatevela sfuggire.

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Balmain, 1953

 

Ricordo di una falena.

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Bello.

Si chiama Eleonora Manca l’autrice di queste splendide foto che fanno parte di una personale visitabile fino al 16 maggio presso la Galleria Paolo Tonin di Torino dal titolo suggestivo: Chrysalis Room _ Solo Show.

La presenza della falena – una mia ossessione attuale – non è l’unico motivo che mi ha spinta a visitare la mostra e incontrare Eleonora.  Avverto nel suo lavoro la presenza di un dolore lento e profondo, ma al tempo stesso quieto. Direi necessario. Le immagini sono rarefatte, ma svelano comunque una visione lucida.  La trasformazione che documentano le sue foto rappresenta la vita stessa, l’evoluzione presente in ogni singolo respiro e la consapevolezza che il dolore sia conseguenza costruttiva, anche se scomoda.

La riflessione su di una inevitabile trasformazione è rappresentata da un bozzolo, che è l’inizio o il continuum di una storia ciclica, e da una falena che si sbriciola come pulviscolo nella luce. La falena parrebbe rappresentare la fine; in realtà non c’è fine, solo una successiva trasformazione.

Il corpo è trattato come strumento per raggiungere una consapevolezza interiore, non ci sono vestiti nè orpelli, solo la pelle: il vestito primordiale. Ma anche la pelle può mutare, credo che questo sia il messaggio simbolico.

Il paradiso può attendere?

MoMu(Olivier Theyskens per Rochas)

Bello.

Conosco persone che non amano affatto le piume, nutrono anzi una vera e propria fobia per tutto ciò che è piumato. Io, al contrario, ne sono letteralmente affascinata, sarei tentata quasi di collezionarle e non mi stanco di inserirle, di quando in quando, negli oggetti che creo.

Dal 20 Marzo si è aperta al MoMu Fashion Museum di Anversa la mostra Birds of Paradise che celebra appunto la presenza di questo elemento nella moda a partire dai fasti della Belle Époque fino ad oggi.

Una incantevole ossessione si direbbe, spesso addirittura fonte di vere e proprie visioni che si realizzano in abiti e accessori spettacolari. Perché le piume, con le loro infinite sfumature, l’aerea inconsistenza e il rimando a una dimensione altra, che non è quella terrena, scatenano una fantasia che trova il suo habitat naturale prevalentemente nell’haute couture.

L’istinto mi direbbe di correre a guardare la mostra, guardatevi il video e ditemi se non capita anche a voi:

Eternity.

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Brutto?

L’avevo già annoverata nella schiera degli Highlanders e ora più che mai lei ne fa parte. Anna Wintour si è conquistata il biglietto per l’eternità: il Costume Institute del Metropolitan Museum of Art della città di New York diventa Anna Wintour Costume Center.

Quanto costa il biglietto per l’eternità?  125 milioni di dollari.

Questa è la cifra che la Wintour ha portato nelle casse del museo in questi anni.  Mica male..

Come ci è riuscita?  Con mostre di grande richiamo mediatico, con una oculata gestione della sua immagine e dei suoi contatti.

Certo suona strano che una persona ancora in vita dia il suo nome a una istituzione (non porterà sfiga?). Un po’ come farsi fare il monumento prima di essere passati a miglior vita. Di solito non si fa e a dire il vero sembra anche leggermente nouveaux riches.

Ma sono sicura che a lei si perdonerà tutto: le mostre piene di glamour e carenti di significato, il piglio dittatoriale, le uscite poco felici nei confronti della moda italiana (a parte Miuccia, sia chiaro), la maleducazione mascherata da status.

Ma la moda è anche questo: rimaneggiamenti, visioni parziali. Grandi e deliziose bugie.

Un abito eterno.

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Bello.

Avevo scritto alcuni giorni fa di questo evento: Eternity Dress al Museo Galliera di Parigi, che vedeva Olivier Saillard insieme a Tilda Swinton impegnati in una inusuale performance in onore di quella che veniva chiamata ‘archeologia sartoriale’.  In quel post raccontavo le mie perplessità riguardo alla definizione e alla stessa operazione. Ma devo fare ammenda, e infine con autentica gioia ricredermi.

Ho ricevuto da Parigi una lettera dall’amica Clara Tosi Pamphili, che è riuscita a trasmettermi il senso e l’atmosfera di un rito, ancor prima che di un mestiere, o un fatto artistico.  Ecco, è così che ho sempre pensato ai gesti di un sarto, e Clara magicamente è entrata in sintonia col mio pensiero.

Questa è la lettera:

“Adriana cara,

ti scrivo da Parigi. Novembre é quasi finito, fa freddissimo, sono qui per lavoro, pensavo di vedere quello che normalmente una città come questa può offrire in un momento di ordinario calendario e mi ritrovo a non avere il tempo di “guardare tutto”. In tutto lo sconforto di tante cose bellissime a confronto del poco che c’è da noi una mi ha ferito più delle altre.

“Eternity Dress” é la seconda collaborazione fra il Palais Galliera, quel meraviglioso museo della moda, e Tilda Swinton.

Ti dico subito che il primo sentimento é stato quello dell’importanza della performance all’Ecole des Beaux Arts: i biglietti già esauriti dal mese di gennaio, l’ansia della lista d’attesa e l’entusiasmo di riuscire ad entrare.La seconda sensazione é stata l’invidia per un paese che riesce a parlare di moda mettendo in collaborazione istituzioni, come un museo e l’università, facendo una performance artistica contemporanea capace di rappresentare degnamente il rito del lavoro sartoriale.

Adriana tu sai quanto parliamo di artigianato, quante mostre e fiere e campagne pubblicitarie si montano sulla promozione di attività creative manuali cercando di ricreare nuovi interessi. Siamo riusciti a convincere i giovani che cucinare é molto cool ma non siamo riusciti a convincerli che fare il sarto che sa fare un abito lo sia quanto essere stilista.

Tutta la performance racconta la realizzazione di un abito: Olivier Saillard, direttore del Museo Galliera, con un metro intorno al collo e con tutti gli strumenti tradizionali misura il corpo di Tilda, insieme riportano le cifre sulla carta. Fanno un esercizio di modellistica. Compiono un rito per realizzare “Une robe, une seule” un abito, uno solo. E’ uno spettacolo commovente, accompagnato da una musica perfetta che sottolinea la voce di lei quando scandisce i numeri delle misure, i tipi di colletti o quando elenca i  couturier cambiando posa ad ogni nome.

Lei é l’abito che indossa, lei rifiuta decori inutili, lei arriva all’essenza di se stessa grazie alla conoscenza delle proprie misure, quelle che permettono al suo corpo di muoversi con eleganza.

Avrei voluto che lo vedessi, tu che sai giudicare, avresti applaudito anche tu come tutti quelli che erano lì, saresti stata colpita da come si possa parlare di archeologia di moda prima che di fashion system.

Un capolavoro. Volevo dirtelo.

Tua

Clara”

Grazie Clara.

Archeologia del mestiere.

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Bello?

Il direttore del Musée Galliera di Parigi, Olivier Saillard, deve avere una predilezione personale per Tilda Swinton .  Già circa un anno fa aveva utilizzato il physique du ròle dell’attrice per un magnifico defilée/performance, The Impossible Wardrobe, in cui la Swinton indossava abiti di archivio, con quella sua attitudine atemporale. E chi meglio di lei? Indimenticabile la sua interpretazione in Orlando di Sally Potter.

Il nuovo progetto che coinvolge l’attrice si chiama Eternity Dress, ed ha come tema la parte meno celebrata dell’universo moda: la sartoria. Si potrebbe dire la confezione su misura, ma temo che qualcuno storcerebbe il naso: non suona abbastanza invogliante. Eppure quello che succede in questa quattro giorni di evento è proprio il confezionamento passo-passo di alcuni abiti sul corpo e per il corpo di Tilda Swinton, utilizzando le tecniche sartoriali d’antan (1950) che il museo stesso conserva nei suoi archivi, sotto varie forme. Quelle lavorazioni, per intenderci, che i più snob hanno sempre sminuito definendole da sartina.

Si comincia a parlare addirittura di archeologia della sartoria, come se quelle tecniche ormai facessero parte di un capitolo chiuso e sepolto. La cosa non mi sembra affatto positiva, né lusinghiera. Non c’è dubbio che il prêt-à-porter abbia monopolizzato il mondo della moda, ma di sarte e sarti in giro ce ne sono ancora, e qualcuno, se Dio vuole, non è nemmeno attempato..

Allora, tanto meglio andarsi a guardare questo video, che almeno è un vintage originale.

La mia sensazione è che attraverso una operazione più concettuale che di vera rivitalizzazione (o salvataggio), si tenti di raschiare un po’ il fondo. Non vorrei che anche questa, come già altre, fosse l’ennesima mostra utile per riempire spazi e agende e contemporaneamente far cassa. Il dubbio è amplificato dalla presenza di un personaggio come la Swinton, che ultimamente tende ad essere presente un po’ dovunque, inflazionando quel suo modo distaccato. Suggerendo un poco troppo insistentemente il suo essere o sentirsi ‘icona’.

Per dar nuovo lustro al mestiere di sarto, in fondo, basterebbe che esistesse qualche vera scuola di sartoria in più, anziché un’inutile profusione di scuole di design e stilismo.

Le occasioni perse.

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Brutto?

Si è appena conclusa la prima settimana della moda torinese o seconda edizione di Modissima. Ecco, già chiamarla settimana della moda, mi è sembrato un atto di presunzione non da poco.. Niente show, niente eventi collaterali..

Non parlerò degli espositori, che senza dubbio avrebbero meritato di essere messi in evidenza con più attenzione e che tra l’altro mi hanno riservato qualche piacevole sorpresa.  Non ne parlerò perché ho promesso a me stessa di non parlare mai di amici e conoscenti.  Troppo arduo sarebbe coniugare amicizia e obiettività (non sono temeraria fino a questo punto..).

Parlerò della location.  Una banca.  Fin qui niente di male. Anzi.  Mi sarei aspettata un salvifico guizzo di ironia, quasi un autogol ben orchestrato.  Visti i tempi che corrono..

Invece niente.  Moquette rosso impiegatizio,  luci al neon con controsoffittatura, piante di rappresentanza e atmosfera glaciale, anzi peggio, asettica.  Che è come dire né carne, né pesce.  Persino all’ingresso la presenza della manifestazione all’interno era a malapena segnalata.

Parliamoci chiaro, io non mi aspetto il triplo salto mortale o i fasti delle fashion week storiche, ma in fondo anche la mancanza di fondi può diventare un incentivo per differenziarsi e produrre interessanti esperimenti.  Almeno per provarci.  Certo bisogna che chi si occupa dell’organizzazione un po’ di moda la mastichi. Perché altrimenti si cade irrimediabilmente nel tranello in cui troppo spesso cade questa città:  avere a cuore più la visibilità fine a se stessa piuttosto che un progetto con gambe e testa in grado di durare nel tempo.

E per volare, poi, sono necessari professionisti e abilità specifiche.  Niente da fare, con l’approssimazione non si vola.

Qualcuno obietterà che i professionisti costano, Beh, dipende.. Se il progetto è davvero valido, qualche professionista disposto ad investirci tempo lo trovi.  A patto di non vendergli fumo.

Ora lo so, di essermi fatta qualche nemico in più.  Anche se in realtà spero che chi di dovere, apprezzi almeno il tentativo di una critica motivata..