Lo zen e la cruna dell’ago. (Part II).

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IMG_20151112_155314(ph. Eleonora Manca).   Coll. White Gothic, Adriana Delfino

Bello?

Dicevo dell’ago… Ecco, ci sarebbero molte storie, leggende e favole che ruotano attorno a questa macchina minuscola. Quello che apprezzo di più dell’ago, è la sintesi che gli appartiene, oltre al leggero brivido che trasmette quell’estremità sottile e appuntita.  Un giorno mi piacerebbe raccogliere i racconti delle ricamatrici e delle sarte e farne un libro scritto ad ago su stoffa.

Io adoro gli aghi più piccoli, quelli con cui si possono fare punti praticamente quasi invisibili: gli orlini sullo chiffon, le rifiniture minute sul raso di seta sottile.  Poi però amo anche i punti delle imbastiture. I fili per imbastire esistono di diversi colori, solitamente si usa quello bianco, io preferisco quello rosso lacca. E’ diventato per me una specie di rito scaramantico o piuttosto un semplice vezzo.

Un capo imbastito, con tutte quelle linee e punti in evidenza come una ragnatela imperfetta, racconta moltissimo. A chi sa guardare, spiega il processo di costruzione, che è sempre personalissimo. Ogni mano procede a modo suo: come la camminata, la mano si muove in modo inimitabile (ne ho già scritto qui…).  Mi capita di fotografare i capi quando sono ancora imbastiti, solo così riesco a ricostruire il percorso fatto dalle mie mani, che a volte è frutto di un’intuizione estemporanea.  A guardarle bene, quelle immagini mi ricordano le impalcature di un edificio, eppure sono fatte per essere disfatte. Forse è per questo, in fondo, che le fotografo. Per conservarne una traccia.  Sembrerà strano, ma spesso io trovo più bello un capo quando conserva ancora tutti quei punti un po’ irregolari fatti con il cotone spesso e grezzo che si usa per le imbastiture. Trovo quel filo così bello, tanto da averci realizzato ricami.

Mi è capitato di disfare abiti cuciti 50-60 anni prima (o anche più) per riadattarli o fare modifiche. E’ sempre un momento emozionante, è come mettere le mani su piccoli tesori, un altro mondo.  Quei punti raccontano una vita o perlomeno una porzione di vita.  Si può capire se la sarta era una persona meticolosa o distratta, se amava quel lavoro o se altri pensieri disturbavano le sue ore. Si può intuire quando ci sono stati ripensamenti sul modo di procedere. E’ come fare la radiografia di un lasso di tempo.

Ogni oggetto conserva memoria di sé. In questo caso sono le dita di qualcuno che hanno lasciato tracce così evidenti da trasformarlo in un racconto scritto non con l’inchiostro, ma con il filo.

Mi piacciono anche le mani dei sarti quando si muovono agili per prendere le misure sui corpi dei clienti. Quasi non le senti, sono come ali di farfalle: velocissime e precise. Sanno dove appoggiarsi e dove tastare per trovare il punto giusto, capaci di non creare imbarazzo.

Si crea un sodalizio speciale con un sarto, probabilmente ancora più intimo di quello che si ha con il chirurgo. Un buon sarto rispetta il tuo corpo, comunque sia fatto; non ha alcuna pretesa di modificarlo, semmai di valorizzarlo.

E allora, fatemelo dire:  God save the tailorsPerché sanno cos’è la lentezza e la pazienza, virtù troppo spesso bistrattate, ma essenziali per dare un senso ai misteri della vita. Perché sono impegnati a dare forma alla nostra seconda pelle, non così importante come la prima, ma è l’unica che scegliamo davvero.

..(continua)..

Le camicie di Ferrè.

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Bello.

Sono tornata a Milano qualche settimana fa per visitare una mostra imperdibile, visto che si trattava di Gianfranco Ferrè.

La mostra si intitolava La camicia bianca secondo me. Gianfranco Ferrè ed era costruita, come si intuisce dal titolo, intorno ad uno dei grandi amori di Ferrè: la camicia bianca. Poiché si tratta di una passione che condivido e di cui ho già scritto e inoltre poiché ho sempre ammirato e apprezzato il lavoro di questo stilista, capite bene che non potevo mancare. Ferrè è uno dei pochi stilisti che non ha disdegnato l’insegnamento, intuendo che la trasmissione dei saperi fosse importante tanto (e forse più) quanto il lavoro creativo sugli abiti. Fu infatti uno dei fondatori della Domus Academy di Milano, dove insegnò fino a quando la maison Dior lo chiamò come direttore creativo. A quel punto gli impegni di lavoro gli impedirono di continuare, ma le sue lezioni sono raccolte in un importante volume: Gianfranco Ferrè – Lezioni di Moda, Marsilio ed.

La camicia bianca rappresenta per me la sintesi perfetta di estetica e funzionalità, un vero e geniale esempio di design e credo che difficilmente sia possibile migliorare questo risultato. Ciononostante Ferrè è riuscito a costruire intorno a questo capo tutto un mondo fatto di interpretazioni, suggestioni, costruzioni sartoriali che, lasciandone intatto il significato concettuale, ne amplificano tuttavia la portata.

L’allestimento della mostra era puro e suggestivo, credo come sarebbe piaciuto al grande stilista/architetto.

Per chi non avesse potuto ammirare di persona la mostra, lascio alle immagini il compito di raccontare questo fantastico viaggio nelle collezioni di Gianfranco Ferrè dal 1982 al 2006.

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L’avanguardia di Roma.

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Bello.

Le sfilate di alta moda parigina di questo inizio anno mi hanno delusa. Le ho trovate inutilmente pompose, prive di idee e ancor meno di sperimentazione. Un vero peccato mortale, considerando la quantità di denaro che mettono in gioco. Sembra stia prevalendo nella haute couture la logica che lentamente sta già uccidendo il pret-à-porter: quella del profitto ad ogni costo a discapito della creatività.

In una situazione dell’establishment così imbalsamata è possibile che voci nuove in contro-tendenza si facciano sentire, e mi pare sia quello che sta accadendo a Roma con la manifestazione AltaRoma, scampata per un soffio dall’essere cancellata e forse proprio per questo risorta più viva che mai.

E’ da un po’ di tempo che osservo il lavoro di LuigiMaria Borbone e questa sua ultima sfilata mi ha piacevolmente sorpresa: una collezione lontana dagli inutili virtuosismi, netta e concreta, ma insieme piena di riferimenti. Lo stilista manda in passerella una attualissima Giovanna d’Arco priva però di armature, disarmata e allo stesso tempo fortissima.

Così la descrive LuigiMaria: ..Una crociata non bigotta, che ama il lusso, ma non il barocco dei carrozzoni.

E’ facile intuire dietro al personaggio storico di Giovanna d’Arco le innumerevoli giovani donne che fanno parte di quella nuova tribù di nomadi di lusso, refrattarie alle convenzioni, spavalde ma anche consapevoli del rischio. Quelle come Pamela Des Barres, famosa groupie degli anni ’70 e altra Musa ispiratrice della collezione.

Mi è piaciuta la sintesi con cui lo stilista interpreta questo stile: pochi colori essenziali, forme asciugate da ogni esibizionismo, decori minimali e proprio per questo evidenti.

E’ possibile che l’avanguardia, in tempi in cui c’è abbondanza di tutto, sia la capacità di liberarsi dell’inutile. Una scelta che odora anche di piccola ribellione.

L’avanguardia è quella che lancia sassi in uno stagno, prima che tutti comincino a lanciare.