I’m an absolute beginner.

 

Brutto.

Il marchio Redemption debutta a Parigi nell’alta moda per la stagione primavera estate 2017 ed io non posso fare a meno di chiedermi perchè?

Come mai un milanese appassionato di biker che pochi anni fa faceva il fotografo e prima ancora si occupava di finanza, decide non solo di diventare un designer, ma addirittura di dedicarsi all’alta moda?

Lui lo dice, e si vede, che di moda ne sa poco. Si vede dall’uso di tutto quel tessuto, di tutti quei volumi e poi un vedo-non vedo talmente abusato che non merita nemmeno un secondo sguardo. Escamotages usati da chiunque immagini che couture sia sinonimo di abbondanza, piuttosto che di sottigliezze, di ricerca sopraffina, di tecnica spericolata e precisa. L’alta moda è il gradino più alto e arrivarci saltando tutti gli altri gradini può essere molto rischioso, a meno di essere veri geni.  L’abbondanza può avere un senso se alla base c’è una visione innovativa. Ma sono innovativi quegli strascichi? E la pelle con le borchie? E i fiocchi al collo?

Tutto questo l’ho già visto più e più volte; non lo definirei vecchio, piuttosto abusato, che è un modo gentile per dire che non ne avevamo bisogno, che è l’ennesima visione personale che non aggiunge una virgola al presente, per non parlare del futuro…

Non è una colpa essere un absolute beginner, anzi, per certi versi la pulizia di partenza potrebbe consentire addirittura una marcia in più. E’ una colpa però pensare che per inventare abiti basti questo.

 

Jesus Del Pozo: da Balenciaga al minimalismo.

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Bello.

Prendendo spunto dal post precedente e dal commento di un amico, sono andata a rispolverare un po’ di storia passata riguardo a Delpozo e precisamente sul suo fondatore: Jesus Del Pozo, morto nel 2011.

Del Pozo era nato a Madrid e nel suo stile erano presenti tutte le caratteristiche tipiche di quell’origine. Più di tutte l’eredità di un grande come Christobal Balenciaga, riconoscibile nell’attitudine tridimensionale, così vicina all’architettura e a trattare il tessuto come un elemento da plasmare, più che da tagliare.

Rispetto a Balenciaga, si può riconoscere una naturale distanza generazionale e la conseguente inclinazione verso tagli più minimalisti, più vicini agli anni ’80/’90.

Rimane oggi, nell’eredità ricevuta dal direttore creativo del marchio (Josep Font) la ricerca nei volumi, resa più evidente da materiali pieni, se non quasi gonfi.

E poi la grande impronta poetica, rinnovata e rimodernata, nei colori tenui o saturi, mai scontati, così come nelle decorazioni.

Del Pozo amava lavorare personalmente sugli abiti (anche in questo si riconosce il suo legame con Balenciaga); i suoi abiti trasmettono il piacere della sperimentazione, della manipolazione della materia e quindi quell’atteggiamento verso il mestiere che lo rende molto più di un semplice lavoro.  Piuttosto un’inclinazione imprescindibile.

Lo zen e la cruna dell’ago. (Part I).

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(Coll. Deep Blue, Adriana Delfino)

Bello?

Buongiorno,

sono una sarta e adoro cucire.  Qualcuno dice che fa più chic dire fashion designer, ma è evidente che non sa di cosa parla e non sa che i primi furono i sarti e che la parola contiene più mondi di quanti lui possa immaginare.

L’ho già detto più volte, un sarto compie gesti pieni di grazia: quando si accomoda il metro morbido intorno al collo, quando accarezza il tessuto per lisciarlo e valutarne la superficie. Quando traccia segni con il gesso, come fossero coordinate o geroglifici di una lingua che lui solo sa decifrare; quando imbastisce linee di filo bianco che sembrano strade (mi sono chiesta più volte, quanti chilometri e chilometri ho imbastito nella mia vita?).

Poi c’è il suono delle forbici che cambia per ogni tessuto: secco per il taffetà, cupo come un tuono per la lana spessa, appiccicoso e acuto per la seta, asciutto per il cotone… Tagliare un tessuto sintetico è una delle cose più sgradevoli che mi possa capitare, ci sono forbici che si rifiutano di farlo. Posso capirle.

Cosa dire poi degli odori?  Avete mai associato ad ogni tessuto il suo odore?  Io li annuso prima di tagliarli. L’odore poi cambia con il calore del ferro da stiro e cambia ancora quando l’abito viene indossato durante le prove. Ci sono tessuti che hanno odori indimenticabili, come le persone in fondo.

Una delle tecniche più infallibili per conoscere la composizione di un tessuto è quella della bruciatura. Con il fuoco non si scherza, nessun tessuto può mentire e in quel caso gli odori sono prove inoppugnabili. Avete presente l’odore di corno bruciato? No?  Peggio per voi, perché non saprete mai riconoscere una pura lana da una finta lana.

Bisogna ora parlare della macchina più importante che usa un sarto: l’ago. Un vero paradosso, pensateci: una linea che contiene un cerchio. E attraverso quel cerchio passano poi altre infinite linee.  Una cosa che a rifletterci sarebbe un indovinello ideale, un rompicapo.  Geometria e design.  Un ago non si può migliorare perché è perfetto ed è uno strumento tra i più antichi (ricordo gli aghi in mostra al Museo Egizio).  A qualcuno potrebbe venire in mente persino qualche associazione magica, simbolica. Potrebbe essere il dono di una civiltà aliena..

Io continuo a stupirmi di quello che un ago, del filo e una mano possono realizzare.

Mia nonna diceva l’ago è fine ma pesante, intendeva riferirsi alla fatica di un mestiere che ai suoi tempi consumava gli occhi e incurvava la schiena. In parte è ancora così, ma oggi è una fatica che è frutto perlopiù di una scelta.  Per le ragazzine del tempo di mia nonna era una dotazione necessaria e praticamente obbligatoria, come saper cucinare o rassettare casa.

In vita mia mi è capitato di piegare aghi, ma difficilmente di spezzarne. Nel mio immaginario, quindi, l’ago è  strumento di una ribellione silenziosa, come un punto fermo attorno a cui ruotano infiniti giorni e incontri e poi storie e emozioni e su cui si può sempre fare affidamento.

..(continua)..

Théatre de la mode.

theatre de la mode

theatre de la mode (Molineaux)Edward Molyneux

theatre de la mode (Patou)Jean Patou

Bello.

Si chiamava Théatre de la Mode e fu esposto a Parigi il 27 marzo 1945, a guerra appena finita. Non c’erano tessuti e quel poco che c’era doveva essere utilizzato con infinita parsimonia. Quindi si utilizzarono manichini in miniatura fatti con filo di ferro e testine di bronzo. Tutte le maison che erano sopravvissute alla guerra vestirono queste bambole alte 70 cm, con le loro ultime novità.

“Si è rimesso in pista qualcosa che aveva continuato ad esistere, ma che non era più così conosciuto. Si poteva pensare che la Couture fosse qualcosa del passato che stava per scomparire o che era già scomparsa. Al contrario…” (Robert Ricci).

Quello che mi colpisce in questi tre modelli, è l’incredibile somiglianza con quel new look che Christian Dior avrebbe imposto  al mondo con grande clamore mediatico ben due anni dopo.

Quel tormentone delle ‘principesse’ 1.

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Brutto?

Giambattista Valli haute couture primavera estate 2015.

Il lusso settecentesco dei metri e metri di tessuto, le cascate di trasparenze leggiadre per bamboline di porcellana.

Le testoline: “..Sii una buona e cara ragazza, e lascia agli altri l’intelligenza”. (Hobsbawm)

Questa alta moda presenta tutti i suoi limiti e scarse potenzialità. Credo che non si possa dire che è brutta, ma tuttavia di questo passo non si va da nessuna parte.

Djagilev, Nijinsky, Poiret: sete, splendori e miseria..

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Bello.

Mi è capitata tra le mani questa bellissima seta vintage, con cui realizzerò un tubino su misura, e immediatamente ho pensato ai Ballets Russes di Djagilev.

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Subito dopo, in automatico, mi è tornata in mente la descrizione della festa più spettacolare di tutti i tempi, quella tenutasi il 24 Giugno 1911 nel giardino della Maison Poiret: La Féte de la Mille et Deuxième Nuit (La Festa della Milleduesima Notte).

Nella sua autobiografia – Vestendo la Belle Époque – Paul Poiret fa una descrizione dettagliata di questo evento, che fu indimenticabile per tutti quelli che ebbero la fortuna di parteciparvi.

La descrizione prende intere pagine. Fu per il couturier, all’apice del successo, la realizzazione di un sogno personale, anzi la messa in scena della sua immaginazione più sfrenata:  ‘Avevo riunito molti artisti e avevo messo i miei mezzi a loro disposizione per realizzare un insieme che nessuno aveva mai potuto creare fino ad allora..’

Durante la festa fu rappresentato un Oriente misterioso e idealizzato, in cui naturalmente il sultano assoluto era proprio lo stesso Poiret e la sua favorita la giovane e bellissima moglie, Denise Boulet.

DenisePoiret_MilleduesimaNotte

PaulPoiret_modelloLinzeler_1919

Gli ospiti vennero forniti di abiti persiani autentici, per non rovinare l’atmosfera della festa. C’erano fontane che sembravano sorgere da tappeti antichi, c’erano cantastorie che raccontavano brani dalle Mille e una Notte, i viali erano cosparsi di sabbia del deserto e vi passeggiavano animali esotici.

“Alcuni alberi erano coperti di frutti luminosi blu scuri, altri portavano bacche luminose viola (…) In un angolo c’era la baracca della maga, che portava dei diamanti incastonati nei denti (…) Ed ecco il bar delle tenebre, in cui solo i liquori erano luminosi..”

Durante la festa le sorprese si susseguirono a un ritmo incalzante: danzatrici orientali, mercanti che inscenavano compra-vendite, un finto incendio culminato in fuochi d’artificio, suonatori di cetra, cuochi indù che preparavano cibi della loro cucina con ingredienti fatti arrivare per l’occasione.  E poi incensi e mirra fatti bruciare da servitori di colore, piramidi di cuscini orientali, una gabbia dorata abitata da odalische..

Poiret non badò a spese, come al solito. Usò il suo denaro così come faceva con l’immaginazione: senza freni. Un uso magnifico e rischioso che lo portò dagli splendori della Belle Époque allo spegnersi solo e in miseria nel 1944. Non se ne accorse quasi nessuno, un solo giornalista era presente al suo funerale, Lucien François, e così scrisse:

..un uomo non può, come Poiret ha fatto, dedicare la sua vita ad esaltare il prestigio del lusso in una città che vive di lusso e ne ricava tesori; un uomo non può, come Poiret, essere stato colui cui tanti artisti, sarti, industriali tessili, profumieri, devono indirettamente parte della loro fortuna; un uomo non può essere Poiret e morire in tale desolata miseria”.

Arsenico e merletti – Belle da morire.

verde arsenico

Brutto?

In piena epoca vittoriana le donne amavano vestirsi di una particolare tonalità di verde. Era il colore di tendenza e non c’è dubbio che le signore in questione fossero delle autentiche fashion-victims perché quel colore era a base di arsenico.

Niente a che vedere con le moderne fashion-victims che nel peggiore dei casi rischiano solo di rendersi ridicole…  Indossare quegli abiti, quelle stole, quei copricapi impregnati di veleno poteva provocare orribili sofferenze fino ad arrivare alla morte precoce.

Ma non è tutto. Quegli abiti lasciavano dietro loro una scia nefasta: ne subivano le conseguenze tessutai, sarti, ricamatrici, lavandaie, domestici. E poi ancora mariti ed accompagnatori che stringevano le dame durante i balli mondani e persino i bambini che venivano abbracciati o tenuti in grembo dalle eleganti e letali mamme.

Sembra che le donne (ma anche uomini) continuassero ad usare i tessuti tinti con quel colorante anche dopo che erano stati resi noti gli effetti funesti che comportavano, arrivando persino a impiegarli per tappezzare intere stanze.

Alcuni degli abiti all’arsenico, insieme con altri capi altrettanto dannosi per la salute, saranno in mostra al Toronto’s Bata Shoe Museum dal 18 Giugno fino al 2016 nella mostra Fashion Victims: The Pleasures and Perils of Dress in the 19th Century.

Il direttore del museo tranquillizza i visitatori circa il pericolo che potrebbe derivare dall’accostarsi a quegli abiti (a meno di leccarli, dice lui…).

C’è da credergli?