Chi cura l’influencer?

influence

Brutto.

Ha fatto il giro del web (una volta si diceva del mondo) la storia di quella influencer che ha scritto all’albergatore di Dublino chiedendo un soggiorno gratis per lei e il fidanzato in cambio di visibilità sui social. L’albergatore dopo averle risposto picche ha pensato bene di pubblicare botta e risposta sulla sua pagina social, rimandando così al mittente lo stesso furbo stratagemma.

Già, perchè nonostante la marea di commentatori si sia automaticamente schierata con l’albergatore, in questa storia non si salva proprio nessuno. Non la ragazza che, tronfia del suo gruzzoletto di follower, era quasi certa di farli valere come moneta sonante cavalcando un malcostume generale. Non si salva nemmeno il proprietario dell’albergo che ha colto la palla al balzo per farsi una immeritata pubblicità.

Si, perchè quale merito c’è nell’aver risposto semplicemente -No, grazie- a una richiesta ridicola?

Diciamo che la ragazza in questione non brilla certo per arguzia e che l’albergatore invece deve essere un gran volpone e diciamo pure che sarebbe ora di dire basta a questo tipo di condivisioni, dove diventa virale solo ciò che è inutile.

La sete di visibilità ci ha offuscato il cervello, per non parlare del senso critico e ci prestiamo così facilmente a questo gioco di rimbalzo, senza nemmeno accorgerci di quanto a guidarci sia l’interesse di qualcuno che nemmeno conosciamo.

 

Concertino per sordi.

glenn ligon

Brutto?

Capita di leggere un interessante scambio di battute, su uno dei social network più gettonati, tra Simone Marchetti (giornalista di Repubblica) e Stefano Gabbana (co-direttore del marchio Dolce&Gabbana).

Tutto parte da un articolo sul Time che affermava già nel titolo quanto il direttore creativo di Gucci fosse ormai diventato un’icona indiscussa di stile e non solo (the most influential italian in the world!). Da qui prendeva il via l’articolo e l’intervista di Marchetti ad Alessandro Michele, che non lesinava certo in elogi ed inchini a tanto genio.

Ma nei commenti al post ecco comparire l’obiezione stizzita di Gabbana che scrive: –Il colore dei soldi fa dire qualsiasi cosa-. (Ma poi aggiunge un cuoricino, giusto per non apparire troppo tranchant). A questa fa seguito la risposta del giornalista che la prende larga riguardo al fashion system e all’appropriazione di idee altrui…

Subito dopo Gabbana rincara la dose scrivendo: –Ti posso fare elenchi di persone che non sono certo stilisti che hanno vinto premi e nomine solo pagando… ma penso tu lo sappia meglio di me-.

A questo punto mi sembra necessario fare una attenta analisi dello scritto:

  1. Nella prima frase (quella sul colore dei soldi) si afferma in pratica che basta pagare e i giornalisti scrivono qualsiasi cosa. Come mai Marchetti non si è offeso? Io al posto suo l’avrei fatto. Insomma, chi tace acconsente?
  2. Si afferma che si potrebbe fare un elenco di disonesti. Ma a che pro, se poi l’elenco non si fa? Lanciare il sasso e tirare indietro la mano? Allora meglio tacere.
  3. Si afferma che non si tratta di stilisti. Classica tattica del tipo tutti i presenti esclusi.
  4. Si afferma che il giornalista sa dell’elenco in questione. Ma allora siamo rimasti solo noi a non saperlo… A questo punto fuori i nomi!

C’è un vecchio proverbio che dice: nel paese dei ciechi quello con un occhio è il migliore. Ma potrei citarne anche un altro che recita: una mano lava l’altra. E ne conosco altri ancora che in qualche modo potrebbero fare al caso nostro. Ma sarebbe superfluo, considerando che pur nella nostra sterminata ignoranza di elenchi, una cosa l’abbiamo ben chiara: che stilisti e giornalisti mai si farebbero la guerra e che certe scaramucce fan discretamente (e amaramente) sorridere.

E infine, è certamente un caso che su la Repubblica di sabato scorso sia apparso un bell’articolo di Marchetti in favore di Dolce&Gabbana, elogiativo quanto basta. Mentre sulla pagina social di cui sopra appariva di recente un post con foto di un capo della stessa griffe, forse per dispensare equamente complimenti e visibilità?

Benvenuti nel paese delle banane.

(immagine: Glenn Ligon).

Le ragioni del successo.

moschino 2015

Brutto.

Non è vero che se hai talento ce la fai sempre. Lo leggi spesso nelle interviste, ma perlopiù si tratta di quelli che sono arrivati dove volevano e nell’impeto dell’onda di successo che li travolge e li gratifica, si regalano le ragioni giuste per essere riusciti a farcela. Fingono, tra l’altro, di elargire speranze alla folla che sta sotto e scalcita per arrivare lassù.

Il talento può essere anche una condanna, quando non trova il canale per esprimersi. Produce l’impossibilità di non tenerne conto, di scrollarselo di dosso e fare come non ci fosse. Mette di fronte a scelte azzardate e produce quasi sempre frustrazione.

Conosco molte persone di sicuro talento che non hanno ricevuto mai un’occasione. Al contrario, qualcuno ha messo loro davanti continui ostacoli. Si, perché il talento vero produce anche invidie, da parte di chi ne ha meno, ma in compenso ha più occasioni.

Spesso poi quelli che ce l’hanno fatta godono di un bonus, ossia il loro talento è sopravvalutato.

In questa epoca di contatti e relazioni più o meno virtuali, sembra che il vero e unico talento che conta sia quello relativo al marketing di se stessi. Questo spiega il proliferare di corsi, workshop e lezioni volanti che dovrebbero insegnare in poche parole a “vendersi” al meglio.  La moneta di ritorno poi è sempre la solita: visibilità.

Perché se non sei visibile, allora non c’è talento che tenga.

Cosa ne facciamo quindi di quei talenti introversi e magari timidi, poco portati per l’auto-celebrazione e con scarso narcisismo? E di quelli che non hanno alcuna intenzione di diventare i cartelloni pubblicitari di se stessi e si piacciono così come sono?  Conosco già la risposta dei più scafati:  peggio per loro.

Già, ma anche per noi che ce li perderemo.

Successo vs talento – Conversazione impossibile?

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Brutto.

Cosa significa essere una persona di successo?  Il tema mi sta molto a cuore e a quanto pare non solo a me: la scrittrice Meg Wolitzer fa delle interessanti riflessioni sull’argomento in un suo articolo da cui prendo spunto.

Siamo circondati dall’idea che per avere successo nella vita, o perlomeno nel proprio ambito lavorativo, sia necessario che più persone possibili ci conoscano e sappiano qualcosa di noi.  Non importa cosa o quanto, purchè ci considerino degni di nota, e spendano parole e pensieri sulla nostra persona.  In questo i social network hanno trovato terreno fertilissimo e hanno creato figure che solo qualche decennio fa non esistevano: il blogger, il trend-setter per professione, il cool-hunter munito di apparecchio fotografico, il giornalista fashionista..  Esistono siti che attraverso calcoli che fatico a capire misurano il grado di popolarità e influence dei singoli individui sul mondo immateriale dei ‘social’ . Come dire che il vecchio Q.I. è stato soppiantato dal K.S. (Klout Score).

Non interessa davvero a nessuno se la persona che ha raggiunto l’agognato successo di immagine possieda perlomeno un talento in qualche campo. In realtà spesso mi viene il dubbio che un reale talento sarebbe più di intralcio che di aiuto. Cos’è d’altra parte il talento, se non un marcatore di differenza?  La persona con potenzialità al di fuori della norma tende ad astrarsi dal gruppo, anche inconsciamente.

Si potrebbe obiettare che ci vuole talento anche a diventare popolari senza talento. Questa però mi sembra davvero la deriva del termine, oltre la quale non vedo barlumi di speranza. E’ un fatto, comunque, che il successo senza talento risulti molto più accettabile oggi di quanto non lo sia il talento senza successo. Il secondo caso prefigura una sorta di mancanza o incapacità: a comunicare, a rendersi visibili. In poche parole a spendersi o peggio a vendersi, come si usa dire.

L’utilizzo di termini per descrivere non è mai casuale, e se per vendersi si intende farsi conoscere, rendersi noti e quindi dimostrare di avere successo, allora immagino che tutto questo comporti un costo, o meglio un prezzo.

Però esistono anche quei casi di talenti veri che hanno trovato la via del successo. La Wolitzer racconta il caso Joshua Bell (considerato uno dei migliori violinisti al mondo), che decise di fare un esperimento: mettersi a suonare nella metropolitana di Washington DC in perfetto anonimato.  Nonostante la sua mirabile esecuzione, i passanti frettolosi rimasero indifferenti.  Allora mi chiedo se davvero oggi siamo in grado di riconoscere il talento, o meglio, interessa davvero saperlo riconoscere?  Può darsi che il suo succedaneo -il successo- sia diventato più allettante e lo abbia reso completamente privo di valore..  Forse siamo circondati da talenti che nemmeno vediamo, o magari quelli che emergono lo fanno solo grazie a semplici percorsi di casualità mista a fortuna.

Poi ci sono i Talent Show. Ma questa è un’altra storia.