Bello.
Ho letto qualche recensione sulla mostra che il Palais de Tokyo a Parigi dedica all’ormai mitico Chanel N°5 e mi sono saltate all’occhio alcune incongruenze.
Diciamo subito che la storia di Chanel si presterebbe a infinite interpretazioni, però alcune date e relativi avvenimenti sono inconfutabili. Laddove si racconta che Gabrielle avrebbe dedicato il suo N°5 a Boy Chapel, bisogna pur dire che nel 1921, anno in cui fu inventato il profumo, Boy era già morto da tre anni e Chanel aveva un nuovo amante, il granduca Dimitri, discendente dei Romanoff. E’ proprio a lui che la couturier deve in realtà l’ingresso nel mondo della profumeria, lei che tollerava come unico odore personale quello del sapone di Marsiglia e che disdegnava i profumi in quanto affari da cocottes..
Il Granduca invece di profumi doveva intendersene eccome, discendendo da una stirpe, quella degli zar, che di essenze faceva buon uso e da lungo tempo.
Per quanto riguarda la scelta del nome e del packaging la stessa Chanel raccontava che la casualità ci aveva messo lo zampino, e io direi anche una buona dose di fortuna o meglio fortunato intuito, visto il risultato. Che poi il tutto fosse stato influenzato da correnti cubiste, dadaiste o surrealiste (di cui Chanel sapeva ben poco..), ho molti dubbi, ma questo è solo il mio parere.
Credo che Chanel possedesse quell’innato intuito affaristico che le faceva fare istintivamente le scelte azzeccate e credo anche che ne fosse ben cosciente, dato il suo carattere votato alla concretezza. In effetti quello che stride spesso nei racconti che la riguardano, è questa tendenza a volgere tutto in smielature e retorica, come se altrimenti il mito ne avesse a soffrire.
Penso che la vera grandezza di questa storia stia proprio nelle pieghe dell’imperfezione, negli errori o piuttosto nelle innegabili debolezze. Ci si aspetterebbe che da cose simili non possa nascere un’icona di stile, e invece..