Let’s dance!

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Bello.

Oggi compio 112 anni e sto una meraviglia.

Tra qualche minuto indosserò una tuta da ginnastica e la giacca a vento verde smeraldo e andrò a fare una corsetta al parco.

Poi aprirò le ante del mio guardaroba e sceglierò un vestito che mi assomigli tanto da confondersi con il colore della mia pelle: un rosa antico appena appena scaldato da una punta di ambra.  Trovo assolutamente confortante la sensazione di diventare quasi trasparente e al tempo stesso un punto esclamativo di se stessi.

In tutti questi anni e compleanni ho riflettuto sul potere che hanno su di me i vestiti che metto e tolgo continuamente. A volte dimentico di averli addosso, mi seguono docili e servili. Diventano ininfluenti.  Non è il loro lato migliore.

Preferisco quando mi obbligano a una silenziosa battaglia: io che mi divincolo un po’ e loro che mantengono ferma la posizione di consistenza e volume.  Mi invitano ad assumere forme che non avevo preso in considerazione, smuovono la mia testardaggine.  In fondo a che servirebbe rimanere ancorati a una perenne sicurezza?

Immagino che debbano pensarla così le signore che amano esagerare con tutti quegli addobbi e colori sgargianti, aggiungendone ancora e ancora con il passare del tempo.  Per me però non funziona allo stesso modo.  Il tempo che stratifica in realtà mi ha un po’ stancato.  La tentazione di abbandonare tutto quell’accumulo è sempre più forte e caparbiamente vado alla ricerca di un miele che sia il più limpido e scivoli sulla lingua na-tu-ral-men-te.

Oggi gli abiti che mi assomigliano quasi non esistono. Credo che nemmeno io saprei pensarli e cucirli. Allo stesso modo il profumo: lo cerco da sempre, ma mi sono arresa. Semplicemente non esiste.

E se esistessero, allora sarebbe un peccato trovarli già ora, alla mia tenera età. E’ un piacere ancora cercare e sperimentare i colori e i tessuti e le infinite combinazioni di questa cosa che si chiama moda.

Una storia di passione e Joy – Jean Patou.

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Bello.

Jean Patou era un uomo raffinato e audace, tanto audace da lanciare nel 1929, in piena crisi economica (ricordiamo il crollo di Wall Street) il profumo più caro del mondo: “Joy”. E già il nome era un manifesto contro l’abbattimento e il pessimismo generale.

Non aveva torto, e il successo strepitoso di quel profumo, che dura ancora oggi, lo conferma. Non che rischiasse poco, visti i tempi che correvano, ma rischiò. Rischiò di nuovo quando nel 1931 propose il primo profumo unisex: “Le Sien”, per uomini e donne che amavano correre a grande velocità. Pensate con quanto anticipo immaginò questo tipo di parità..

Patou creava vestiti che si adattavano alle persone e non il contrario. Inventò lo sportwear per le donne che finalmente potevano non solo muoversi comodamente, ma addirittura fare sport.  Erano suoi gli abiti con cui nel 1919 Susanne Lenglen vinse il torneo di Wimbledon, scandalizzando i benpensanti, perché il gonnellino così corto non lasciava molto spazio alla fantasia.

Era amico di Chanel (forse l’unico tra i couturier dell’epoca), non c’è da stupirsi, parlavano la stessa lingua. Quello che stupisce piuttosto è quanto un uomo abbia potuto immaginare quello di cui le donne avevano davvero bisogno, mettendosi letteralmente nei loro panni.

La storia ci suggerisce lezioni da tenere a mente. Ci indica possibili modelli di cui fare tesoro e soprattutto nei periodi di crisi ci insegna che l’immobilismo non è affatto una buona idea. Il coraggio e il talento possono fare la differenza.

Se la puzza diventa trendy.

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Brutto.

Non è uno scherzo, bensì un vero prodotto di nicchia per nasi raffinati (108 euri per 30ml!). Insomma la versione glamour per ‘l’uomo che non deve chiedere, mai’.

Basta con i fiori, le essenze gourmand, i legni rari; la nuova frontiera della profumeria sono gli odori corporei: sudore, latte materno, odori sessuali..   Ma vi segnalo un’altra chicca: Peety di O’Driù, un profumo a cui vanno aggiunte (tocco personalissimo!) 10 gocce della propria pipì.. Anche questo non te lo regalano: ben 150 euri.

Secondo Lidewij Edelkoort, definita una delle 25 donne più influenti della moda, c’è voglia di odori animali, primitivi. L’odore di pulito ha stancato, quindi l’idea è quella di riprodurre l’odore di sporco, brutto e cattivo.

Basterebbe non lavarsi, obietterà qualcuno.. Troppo facile. Sporco si, ma griffato.

L’alchimista.

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Bello?

Una delle interviste più improbabili che ho letto negli ultimi tempi arriva dalle pagine di Vogue Unique. Si tratta di Christian Astuguevieille direttore creativo di Comme des Garçons Parfums, per il lancio del nuovo trittico di profumi che spaziano sul tema del colore blu.

Astuguevieille ad un certo punto ammette di ignorare l’identità di Michael Stipe dei R.E.M., il che non è un peccato mortale, anche se un po’ suona insolito. Poi però spiega che lui ascolta solo Bach e Beethoven, non guarda la televisione e che è fuori dal contemporaneo. L’affermazione mi lascia perplessa. Cosa significa? Che vive in metropoli come Parigi e Berlino, a contatto con realtà mutevoli e protese verso il nuovo come la moda e il design, e ciononostante immagina di vivere fuori dalla realtà?

Mi sembra di scorgere nelle sue parole quel tanto di atteggiamento snobistico che offusca un bel po gli innegabili meriti professionali.  Più avanti, nell’intervista, racconta il suo approccio con i collaboratori: “Magari dico soltanto -Blu:basta che sia diverso e nuovo. Tornerò tra una settimana, voi procedete, ma siate folli-  Perfetta fusione tra un Frederick Worth (metà ‘800) e uno Steve Jobs..

Ancora con questo cliché genio&follia, ancora con il mito del profumo che nasce da una semplice intuizione, anziché dal lavoro di ricerca e marketing..

E ancora con l’utilizzo di questa parola -Arte- come se fosse un ingrediente.

Chanel N°5: la storia, le storie.

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Bello.

Ho letto qualche recensione sulla mostra che il Palais de Tokyo a Parigi dedica all’ormai mitico Chanel N°5 e mi sono saltate all’occhio alcune incongruenze.

Diciamo subito che la storia di Chanel si presterebbe a infinite interpretazioni, però alcune date e relativi avvenimenti sono inconfutabili. Laddove si racconta che Gabrielle avrebbe dedicato il suo N°5 a Boy Chapel, bisogna pur dire che nel 1921, anno in cui fu inventato il profumo, Boy era già morto da tre anni e Chanel aveva un nuovo amante, il granduca Dimitri, discendente dei Romanoff. E’ proprio a lui che la couturier deve in realtà l’ingresso nel mondo della profumeria, lei che tollerava come unico odore personale quello del sapone di Marsiglia e che disdegnava i profumi in quanto affari da cocottes..

Il Granduca invece di profumi doveva intendersene eccome, discendendo da una stirpe, quella degli zar, che di essenze faceva buon uso e da lungo tempo.

Per quanto riguarda la scelta del nome e del packaging la stessa Chanel raccontava che la casualità ci aveva messo lo zampino, e io direi anche una buona dose di fortuna o meglio fortunato intuito, visto il risultato. Che poi il tutto fosse stato influenzato da correnti cubiste, dadaiste o surrealiste (di cui Chanel sapeva ben poco..), ho molti dubbi, ma questo è solo il mio parere.

Credo che Chanel possedesse quell’innato intuito affaristico che le faceva fare istintivamente le scelte azzeccate e credo anche che ne fosse ben cosciente, dato il suo carattere votato alla concretezza.  In effetti quello che stride spesso nei racconti che la riguardano, è questa tendenza a volgere tutto in smielature e retorica, come se altrimenti il mito ne avesse a soffrire.

Penso che la vera grandezza di questa storia stia proprio nelle pieghe dell’imperfezione, negli errori o piuttosto nelle innegabili debolezze. Ci si aspetterebbe che da cose simili non possa nascere un’icona di stile, e invece..