Brutto.
Sorrido leggendo uno degli ultimi articoli su La Repubblica, che sdogana clamorosamente i due termini che sono l’anima di questo blog: bello e brutto.
Sorrido perchè meno di due anni fa, da un altro titolato giornalista, questa scelta era stata definita tranchant (!).
Ma si sa, la moda è terreno fertile per improvvise sterzate o persino inversioni ad U. Possiamo dire tranquillamente che la coerenza non è mai stata di moda, per un settore che fa del cambiamento la propria parola d’ordine.
Sorrido anche per quel modo tutto speciale di trovare un senso storico e plausibile ad abiti che fanno francamente schifo: “stop al perbenismo”, “immagine dura e cruda”, “risposta urlata all’omologazione”.. Tutte descrizioni scovate con certosina pazienza per evitare quella domanda che rimane perennemente in sospeso: ma chi se li metterà mai questi abiti??
Domanda pertinente quanto mai, visto che sembra che questi abiti si vendano pure. Allora chiediamoci se non sia forse il risultato di quella miriade di commenti edulcorati, alla perenne ricerca dell’ultima pseudo-provocazione. Siamo sicuri che chi compra questi abiti lo faccia per opporsi?
Piuttosto (come sempre) per distinguersi. Una provocazione vale l’altra e ostentare abiti brutti ha il vantaggio di lasciare immaginare un aplomb intellettuale che dovrebbe fugare ogni dubbio (quale furbizia!). Oltre al fatto che una moda brutta appare a molti come il capolinea dell’estetica e nel gioco dei contrari questo risulta essere il massimo della distinzione.
Ma allora è il solito gioco della moda, che nel ‘700 imponeva gonne larghe svariati metri e oggi impone vestiti da stracciona. In tutto questo la Moda non ci fa una gran bella figura (per buona pace di chi la considera un frivolo passatempo), rivelando quel suo lato oscuro fatto di teste non-pensanti.
P.s. Copio qui un commento esemplare ricevuto su questo post: Guy Laroche diceva: “Mai fare un abito brutto; c’è sempre il rischio che qualcuno se lo metta…”
Sono d’accordo. Da profana ho osservato le varie collezioni A/I 2016/2017 presenti sulle September issues delle ns riviste di moda. Mai come quest’anno le ho trovate veramente brutte, da vedere e da indossare. Tanto per citarne una fra tutte, Moschino con i vestiti “bruciati”… Ma stiamo scherzando? Mi domando se, a questo punto, la moda ha ancora qualcosa da dire o se si tratta di trovare a tutti i costi l’ennesima provocazione. A cosa o a chi non si capisce.
A chi? Infatti è questa la domanda. Forse il mercato è talmente drogato da condizionamenti di ogni tipo, da richiedere dosi sempre più massicce di apparenti “provocazioni”.
Non può essere questa la strada opportuna, è evidente, ma sicuramente è quella più facile.
D’accordo sulla bruttezza delle collezioni che da qualche stagione si vedono sulle passerelle e nei negozi. Sul fatto che questi capi vendano comunque secondo me è insito nella passività del consumatore di moda, una passività che è evidenziata anche nel lessico (“seguire moda”, “fashion victim” “diktat” etc. ). La massiccia attività di marketing poi favorisce più di tutti l’accettazione e addirittura l’adesione dei consumatori a queste provocazioni che , come dici tu, sono solo apparenti. È tutto business ma anche un sistema che, sempre di più, mostra le sue corde.
Giusto. Un marketing invadente che stabilisce le direzioni da seguire. Che prende il posto della creatività, non a caso oggi gli stilisti sono stati sostituiti dai direttori (che per fare scena si definiscono anche creativi).
Magari studiare la storia della moda…..ci sarebbe tanto da imparare e da riproporre ai giovanni che non hanno cultura estetica ma che sono i fruitori della moda attuale.
Magari..!
E’ un tema che tratto continuamente, ma spesso mi imbatto in chi ritiene che la modernità sia solo la capacità di essere connessi con le novità, salvo poi presentare collezioni in cui tutto è già stato fatto da altri (e molto tempo prima). Ma loro, neanche lo sanno..