Sogno di una notte di mezza estate.

madame gres

Bello.

Questo è facile; facile come bere un bicchier d’acqua. Qualcuno oserebbe dire che non è una bella immagine, un abito sublime, una storia affascinante (per i meno informati, l’abito è di Madame Grès)?

Ma non c’è niente di male, a volte, ad andare sul sicuro. Tra mille difficoltà si può scegliere qualcosa di facile come la bellezza degli abiti di Madame Grès, che sembrano eterni.

Ecco, io vi/mi auguro un’estate facile, perlomeno quello che resta dell’estate.

Svegliarsi nelle prossime mattine senza gli affanni e senza quei pensieri che molestano le notti e si allungano spesso anche sui giorni. Vi/mi auguro di dormire notti pacifiche e fresche che al mattino vi lascino un unico pensiero leggero.

Vi/mi auguro di indossare abiti facili: quelli che si indossano velocemente e velocemente si ripongono; con i colori giusti, che vi scaldano al solo guardarli. Gli abiti che pesano come una piuma e si appoggiano lievemente anche sul cuore.

Buon agosto.

Balenciaga and Spain – Le origini del genio.

 

Bello.

Il video si riferisce ad una mostra del 2011 al Young Museum di San Francisco, California e documenta in modo dettagliato il legame naturale e indissolubile di Cristobal Balenciaga con la sua terra di origine.

Penso che ogni singolo abito di questo couturier racconti una storia affascinante e soprattutto la sua totale abnegazione nei confronti della creazione. E’ probabile, anzi, che la storia stessa della sua vita e il suo pensiero siano condensati in quella dedizione  verso il fare abiti.

Per chi si occupa di moda ogni fotogramma di questo video può essere un regalo. Si può comprendere la nascita di un’idea, immaginare il percorso che Balenciaga ha compiuto per elaborare in forme personali i ricordi e l’estetica respirati sin dalla nascita.

Credo che nessuno più di lui abbia convogliato tutte le proprie energie nella ricerca di quella perfezione intravvista come un sogno, eliminando distrazioni, orpelli, dettagli inutili. Realizzando forme così pure da lasciare stupiti ancora oggi, noi abituati a vedere tonnellate di abiti e forme.

La mia sensazione è che tutte quelle altre forme e abiti scompaiano e rimanga stagliata nei miei occhi questa immagine di straordinaria modernità.

L’orda barbara.

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Brutto

Balenciaga autunno inverno 2016/17.

E dopo aver visto l’ultimo scempio di Demna Gvasalia su di un marchio storico a me particolarmente caro, il sospetto si tramuta in qualcosa di più.  Penso che sia stato messo in mano a un’orda di giovani e fanatici dell’assemblaggio compulsivo un giocattolo troppo complesso e prezioso.  Ecco la nuova generazione di stylist, poco credibili come stilisti, del tutto improbabili come couturier (ma non chiediamo tanto).

Il rischio è sotto i nostri occhi: il giocattolo rischia di rompersi.

Cristobal Balenciaga era colui che Dior (non certo prodigo di lodi) definiva il maestro di tutti noi, e in effetti la perfezione dei suoi abiti era parte fondamentale del suo stare nella moda, insieme a tutto il resto.

Alla luce di questo mi chiedo, ma non era l’heritage dei marchi storici uno dei valori più cospicui, da difendere ad ogni costo?  Mi sorge il dubbio che si sia preso un abbaglio, scambiando per storia il vintage dei mercatini del bric-à-brac.

Il disegno appare chiaro, come al solito la tendenza è quella che conta e se la tendenza porta soldi, allora si plaude al genio. Infatti già dopo la sfilata si è parlato di successo. Dando per scontato che lo stilista porterà nelle casse del marchio gli stessi soldoni che sembra aver fatto con Vetements. Eppure i commentatori di settore dovrebbero saperlo che non stiamo parlando dello stesso pubblico..

 

Una sfilata non salverà il mondo.

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LaPresse04-05-2011 Taranto (Italia)CronacaTaranto, arrivo dei profughi libici da LampedusaNella foto: l'arrivo dei profughiLaPresse04-05-2011 Taranto (Italy)NewsTaranto, libyan refugees from Lampedusa to the Taranto harbourIn the pict: libyan refugees

Bello?

La collezione primavera/estate 2016 di Valentino è ispirata all’Africa e che questo continente sia un’ispirazione potente per la moda, è cosa antica. Forse bisognava trovare un punto di vista nuovo a tutti i costi? E’ da questo che nascono le dichiarazioni dei due direttori creativi della maison che toccavano il tema dell’immane tragedia dei profughi?

Peccato, perché credo che la collezione non ne avesse bisogno: è una collezione di abiti raffinati e ben fatti, coerente con lo stile del marchio.

Avverto nelle dichiarazioni di Chiuri e Piccioli un retrogusto di buonismo, tanto spiacevole quanto fuori luogo. Non è un connubio poco rispettoso quello che accosta il dolore e la fatica di questa gente al momento sfavillante di una sfilata?  La moda racconta e si nutre della storia, è vero, ma funziona come un filtro. Altro non può fare. Calarsi nelle tragedie non le compete, meglio ancora: sono le tragedie che non hanno bisogno della moda.

A dirla tutta la mia impressione è che Chiuri e Piccioli non si accontentino più di essere i primi della classe, ora vogliono essere anche i più buoni.

Ho sempre saputo che la beneficienza è un gesto che si fa e non si dice, ancor meno si fanno proclami di buone intenzioni a cui non seguono fatti concreti.

Ci sono volte in cui meglio sarebbe stato tacere.

Gli abiti inutili 1.

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Brutto.

Primavera/estate 2016. Cosa è rimasto della Barbara Casasola che avevo tanto apprezzato per quel suo raffinato punto di vista? Irriconoscibile. E’ questo quello che produce il confronto con il mercato? Omologazione, banalità, abiti francamente inutili.

Rifletto da tempo ormai sul reale valore della moda in questo tempo di consumismo stanco e annoiati e bulimici shopping tour. La moda, che troppo spesso è diventata erroneamente solo sinonimo di abiti, rischia di sprofondare sotto il peso di quintalate di abiti che in un soffio possiamo dimenticare.

Capita solo a me di avvertire questa sensazione di NOIA?

Un abito è solo un abito, per quanto innovativo o bello che sia, ma la moda è una storia, anzi, di più, è un modo di stare al mondo. Cosa se ne fa la moda di abiti che abbiamo già visto e rivisto? Andranno ad occupare altro spazio reso prezioso ormai dalla mancanza di spazio. Consumeranno altre energie sempre più scarse, riempiranno armadi o magazzini già stracolmi…

Comincia così, con Barbara Casasola, il mio reportage/elenco di abiti inutili. E sono sicura, purtroppo, che sarà lungo.

Io un antidoto ce l’avrei, ma temo che non piacerà quasi a nessuno, e comunque aspetto di sperimentarlo prima personalmente e poi, forse, ne scriverò.

Nel blu dipinto di blu.

il terzo stato

charlie

Pellizza da Volpedo,  1901      –       Parigi,  2015

 

Brutto?

Se gli abiti possono raccontare la storia – e lo fanno, senza dubbio – allora ci conviene riflettere su questi due colori, marrone e blu, così evidenti e pervasivi. Come blocchi o meglio idee, ideologie.

Ci conviene riflettere anche sui gesti, gli sguardi e il modo di portare quegli abiti.  Quegli abiti non sono solo pezzi di stoffa, e in questo caso la faccenda è evidente.

Non si tratta meramente di politica, la questione è ben più profonda, si tratta di umanità.

p.s. Un’amica mi fa giustamente notare che il blu/nero/grigio è ormai diventato il colore di tutti gli strati sociali, compresi quelli meno abbienti.  Mi soffermo però sul titolo del dipinto: Il quarto stato.  Il quarto stato nella Francia pre-rivoluzionaria, come tutti sanno, non esisteva. Il terzo stato comprendeva tutti coloro che non appartenevano all’aristocrazia e al clero, compresi i ricchi borghesi e la cosiddetta noblesse de robe (appellativo quanto mai interessante). Il quarto stato di Pellizza da Volpedo diventa quindi uno stato nello stato.  Paradossalmente potremmo persino dire che entrambe le immagini si riferiscono alla stessa classe sociale – o perlomeno nel secondo caso all’evoluzione del primo -. C’è di mezzo oltre un secolo di storia e quel colore ce la racconta meglio di tante parole. Così come ce la raccontano i cappotti e quel camminare serrati che a me fa pensare all’avanzare dei Caschi Blu (vedete come il colore ritorna?).

Ho visto cose..

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Bello?

Ogni volta che mi allontano dalla moda e dai modanti è la stessa cosa: faccio un’immane fatica a riavvicinarmi. L’ipotesi è che questo non sia il mio posto, non fino in fondo. Mi chiedo come facciano quelli sempre connessi, a cui non sfugge alcuna notizia o notiziola. Come facciano a non sentirsi stufi, almeno ogni tanto.

Certo i fatti si susseguono incalzanti, non si può mancare nel commentarli: Chalayan da Vionnet, i saldi di fine stagione (ma se l’inverno è appena cominciato??), le file idiote davanti a Desigual..

Ma basterebbe anche solo un momento di riflessione per comprendere che: della storia di Madeleine Vionnet pochi sanno davvero qualcosa -e ne ho avuto conferma molte volte-, i saldi sono l’ennesima pessima idea a cui non c’è più nulla da aggiungere. Infine la fila di ragazzi seminudi al freddo a fare pubblicità gratuita ad un marchio dozzinale meriterebbero solo il silenzio, proprio per evitare di partecipare al gioco.

Dare il giusto valore alle cose, ecco quale sarebbe la banale risposta. Le cose che stanno perennemente un gradino più in basso delle esperienze. Ma quante volte, nelle descrizioni dei fatti, ho la sensazione di ascoltare una lista di oggetti che da soli dovrebbero descrivere gli stati d’animo, gli avvenimenti, l’atmosfera..?  Da quando gli oggetti ci qualificano così profondamente?

Non è così.

Gli oggetti, il più delle volte, ci sopravviveranno, ma porteranno appiccicato solo un barlume di noi.  Penso agli oggetti della mia famiglia, appartenuti a persone ormai defunte, mi raccontano così poco. Inventiamo tutti un pezzo di storia attraverso gli oggetti, ci illudiamo che sia realtà.  Gli abiti non sono diversi.

La moda ha nel suo nome stesso il parallelo con modernità.  Io voglio intenderlo come propensione al presente e attitudine al futuro. Vivi l’attimo, si dice, gli oggetti sono un mezzo, ma l’esperienza intima di quell’attimo è il fine. Credo fermamente che la moda non siano gli abiti e nemmeno i loro creatori (perlomeno solo in parte), ma il contesto in cui viviamo.  Solo così la moda non mi risulta estranea e infine posso credere che incida anche nella vita.

Una storia italiana (di ago, ditale e avanguardia).

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Bello.

Germana Marucelli è un altro di quei nomi poco, pochissimo noti all’interno della storia della moda italiana. Fortunatamente è di questi giorni un evento che restituisce al suo lavoro il giusto peso.

Germana era innanzi tutto una sarta, bellissima parola, che chi mi conosce sa quanto io tenga in considerazione.  Ma naturalmente non era solo questo. Diciamo che partiva da questa sapienza tecnica, altissima, per potersi esprimere anche a livello intellettuale.  Un’intellettuale del cucito, si potrebbe dire, e a chi storcesse il naso davanti a questa definizione suggerirei di andarsi a leggere la biografia, che contempla collaborazioni con artisti del calibro di Piero Zuffi e Getulio Alviani, mentre i suoi giovedì erano frequentati da personaggi quali Giò Ponti, Savinio, Casorati, Fontana, Quasimodo, Zanzotto, ecc.

Germana Marucelli era una donna concreta ma con un grande talento nell’annusare le tendenze e il futuro: è documentato dai suoi modelli il fatto che prevenne il new look quando ancora non era nemmeno nato. Ma si sa, una sartina italiana non avrebbe potuto certo competere con Monsieur Dior..  Però poteva ispirarsi a Picasso, Mirò, i surrealisti, e lo fece.

Fu attiva dagli anni ’20 fino al 1972  inventando tutto ciò che poteva e catturando l’aria del tempo come pochi altri. Lavorò nella Milano che non era ancora stata invasa dal prêt-à-porter, vestendo le donne più esigenti del suo tempo, italiane e non. Non si curò di quelle correnti sotterranee che stavano invadendo il mondo della moda per trasformarlo in gran parte nel circo che sarebbe diventato. Questo le costò un effettivo isolamento negli ultimi anni della sua carriera e credo anche l’oblio di cui il suo nome ancora risente.

Ci sono tesori nella storia della moda italiana che non brillano ancora quanto potrebbero e dovrebbero. E’ un vero peccato, ma anche un dovere per chi si occupa di questo settore, provare a scostare un po’ di polvere.